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IL LAVORO FEMMINILE. LA VERA DISCRIMINAZIONE COLPISCE LE MADRI
Si può forse dire che oggi esista realmente in Italia la parità tra uomo e donna nel mondo del lavoro? Quando dalla pura teoria ci si cala nella concretezza delle aziende e ancor più delle piccole realtà lavorative, salta agli occhi quanto distante sia il nostro Paese da questa affermazione.

Laura Bonaventura

Tutta la carriera lavorativa di una donna è segnata dalla difficoltà di conciliare il ruolo di madre e quello di lavoratrice. Le donne, infatti, sono penalizzate fin dal momento dell'assunzione, quando si sentono chiedere: "Lei ha intenzione di sposarsi? Vuole avere figli?", domanda che sottintende la quasi certezza di essere scartate in caso di risposta affermativa, e in cui gli uomini sono quasi sempre preferiti in quanto non soggetti alla maternità.

In Italia, a differenza di molti paesi del Nord Europa, per le donne l'accesso alle professioni maschili e la cosidetta emancipazione femminile ha comportato, a fronte dell'indubbio vantaggio di non essere costrette a sposarsi per essere mantenute e "protette" da un uomo non amato, una situazione paradossale, ossia una crescita spropositata di pretese sociali ad esse rivolte.

Mogli e madri felici e premurose, ma anche in carriera; belle, magre, sportive e sexy, ma anche casalinghe perfette e chi più ne ha più ne metta. Troppi ruoli, di fatto impossibili da sostenere per una persona sola. Resta affibbiato alle donne quel sottile senso di colpa, quel sentirsi sempre in difetto che le accompagna in un modo o nell'altro da tutta la storia dell'umanità.

E' proprio la maternità che mostra in maniera eclatante l'arretratezza della società italiana. Il datore di lavoro accoglie sempre la notizia della gravidanza alla stregua di un'offesa personale. Dal giorno successivo a tale comunicazione, alla donna vengono a poco a poco tolti tutti gli incarichi di rilievo.

Tre mesi dopo il parto, al ritorno, la madre comincia a fare salti mortali per dedicare il tempo necessario alla cura dei figli nel rispetto dell'orario di lavoro. Considerandola inaffidabile in quanto costretta ad assentarsi in caso di malattia o di problemi dei figli, rimane ai margini dell'attività, soggetta a continui malumori e richiami più o meno espliciti da parte del capo; la sua carriera è bloccata.

Superati i primi dieci anni di vita del bambino, quando la donna potrebbe tornare in pista con sufficiente tranquillità, i giochi sono ormai fatti, le carriere decise e non può far altro che assestarsi su posizioni di basso profilo.

Le recenti modifiche alla legislazione del lavoro e il fiorire dei nuovi contratti a progetto hanno colpito negativamente le donne in maniera particolare: è infatti ormai la norma per la popolazione femminile non vedersi rinnovare i contratti a tempo determinato proprio all'inizio della gravidanza, ritrovandosi senza entrate quando ne avrebbe maggiormente bisogno.

Esistono alternative? La prima è quella di rinunciare alla maternità o, al massimo, di fermarsi al primo figlio: una strada sempre più percorsa dalle donne italiane, accusate per questo di egoismo, immaturità, rifiuto delle responsabilità.

La seconda è quella di trovare un marito ricco, percorso anche questo ancora molto battuto, che alimenta l'eterna considerazione negativa delle donne interessate solo al denaro e pronte a "vendersi" per un buon conto in banca.

La terza strada è quella di affidare la crescita della propria prole ai nonni, per quelle che hanno genitori e/o suoceri a completa disposizione, salvo comunque dover sottostare - di nuovo! - a scelte educative e a volontà parentali dalle quali si era sperato, crescendo, di essersi emancipate definitivamente.

Cosa offre attualmente lo "stato sociale" ad una lavoratrice madre, a basso reddito e senza aiuti familiari? In aggiunta ai tre mesi post-parto, sei mesi di astensione facoltativa per maternità, retribuiti al 30% dello stipendio fino ai tre anni di età del bambino, poi utilizzabili senza alcuna retribuzione fino agli otto anni del figlio.

Asili nido insufficienti, ai quali si accede praticamente solo se si è extracomunitari, figli di detenuti o nullatenenti; nidi e scuole materne e primarie che terminano alle quattro del pomeriggio, chiudono tre mesi l'anno e settimane intere a Natale e Pasqua. Nient'altro.

E dopo le quattro? E durante le vacanze? Se una donna lavora dalle nove alle diciotto e impiega un'ora nel tragitto casa-lavoro, chi accudirà suo figlio dopo l'uscita dalla scuola? Ecco l'esercito delle donne filippine, rumene, polacche, africane, baby sitter improvvisate e disposte, per poche centinaia di euro, a passare le giornate con i nostri bambini, quasi sempre in nero, spesso clandestine, licenziabili senza problemi: altre donne senza diritti, che hanno lasciato i loro figli o hanno rinunciato ad averne per crescere quelli di altre donne che non possono farlo da sé.

Lo Stato continua a fare affidamento sul supporto di nonni, che sempre più frequentemente abitano lontano, sono ancora impegnati o viceversa, dato l'innalzamento dell'età alla quale si mette al mondo il primo figlio, non sono più in condizioni di accudire creature piccole sì, ma bisognose di energie fresche e quasi inesauribili.

Le città impongono distanze che moltiplicano le difficoltà delle madri nell'accompagnare i figli a scuola come alle attività extrascolastiche e alle visite mediche, tanto più quando queste necessità, sia pure ridotte al minimo, ricadono nell'orario di lavoro.


  
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