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TRE SORELLE DI CECHOV
UN'ISTANTANEA DEI NOSTRI TEMPI

“Il testo più bello e duro di Cechov”, così il regista Massimo Castri introduce le Tre Sorelle di Cechov nella versione milanese della messa in scena. Al teatro Out Off di Milano fino al 2 Dicembre, l’opera ha già debuttato all’Argentina di Roma e presto girerà il resto della penisola.

Nicola Francesco Dotti

Il testo di Cechov è il vero protagonista: un nichilismo imperante in cui si intessono le vuote esistenze delle tre sorelle e degli altri personaggi di una casa che vive sospesa tra una gloria passata, spezzata dalla morte del padre, ed un futuro sognato e mitizzato che non arriverà mai. Le Tre Sorelle colpisce per la sua incredibile attualità, non un’opera fuori dal tempo come alcune tragedie esistenziali della classicità, ma una fotografia disarmante dell’età che viviamo, effimera come la cronaca quotidiana, eppure profonda nel saper cogliere il senso dei tempi. A tratti, sembra che l’autore si sia divertito ad usare un’epoca passata per raccontare la contemporaneità, come fece nella nostra tradizione italiana Alessandro Manzoni, mentre invece è l’esatto opposto a testimonianza della grandiosità dell’opera e dell’autore.

Dei vari temi trattati, vale la pena soffermarsi su Mosca: la capitale di tutte le Russie vive nell’opera come il mito passato della felice giovinezza delle tre sorelle e come futura via d’uscita dalla mediocrità della vita di provincia. Sebbene Cechov abbia vissuto a metà del XIX secolo, Mosca appare una città quanto mai attuale in questo ruolo tra il mito naif del Comunismo bolscevico, di cui le nostre giovani generazioni hanno solo un’immagine riflessa - così come la più piccola delle tre sorelle mitizza l’infanzia col padre confondendo luoghi ed età della vita - ed il futuro di una neo-borghesia (termine su cui si dovrebbe pur riflettere), che proprio in questi anni di neo-capitalismo russo sta conoscendo il lusso di una ricchezza sfrenata a fronte di indicibili contraddizioni, ma che incarna il mito dell’età del l’oro sognata da Irina e concretizzata nei nostri tempi.

La Capitale della Piazza Rossa diventa il crocevia di ricordi e speranze, mentre in scena si vivono i riti di una società vuota, come il “Consorzio” a cui il fratello ambisce e che rappresenta un po’ tutte quelle cariche importanti giusto per chi vive nella provincia anonima, russa o italiana che sia, cariche importanti solo per chi le ricopre.
Appare quanto mai attuale anche la visione della scuola, un’istituzione vuota di contenuti educativi, priva di qualunque senso pedagogico e che viene ridotta ad un Preside il cui valore è puramente sociale e a dei Consigli di classe che servono solo a provocare forti emicranie a chi vi partecipa.
La rappresentazione del mondo appare quanto mai triste, vuota, annegata tra formalità di matrimoni come rito sociale dove si rinuncia dichiaratamente all’amore e la consapevolezza di un’aristocrazia ormai obsoleta.

Dell’allestimento di Castri colpiscono due aspetti. Le scene e costumi di Maurizio Balò con le musiche di Arturo Annecchino riescono a fornire all’opera una profondità e dei colori assolutamente unici. Tra gli attori, Renato Scarpa, nel ruolo del medico Ivan Romanovic, e la giovanissima Alice Torriani, nel ruolo di Irina, la più giovane delle tre sorelle, riescono ad aggiungere un qualcosa in più fondendosi, anche fisicamente, nelle rispettive parti, quasi che Cechov le avesse scritte apposta per loro.

È sconsigliato a chi ritiene che tempi e modi teatrali debbano appiattirsi alla velocità della comunicazione televisiva, in quanto l’opera dura oltre 3 ore e con tempi tutti rigorosamente teatrali.



(26/11/2007) - SCRIVI ALL'AUTORE


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