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Non c'è, nelle cronache letterarie, un'opera che come il Vicario sia stata al centro di polemiche così acri e di contrasti così accesi, che abbia suscitato denigrazioni così accanite e consensi così entusiastici.

Molti hanno ritenuto di potersene sbarazzare più facilmente contestandole ogni valore artistico e contrapponendole opere storiche più moderate nelle conclusioni.

Già nella premessa viene ricordata una frase del premio Nobel per la pace Elie Diesel: «Gli assassini erano battezzati, per lo più, erano stati educati nel cristianesimo… eppure uccidevano».

Ma anche senza voler entrare nel merito del problema della validità letteraria o documentaria del Vicario, su cui giudicherà il lettore, non si può negare allo Hochhuth il merito di essere arrivato al fondo di una delle questioni più scabrose dei nostri tempi.

Al centro di quest'opera è la figura di Papa Pio XII che l'autore - sulla scia di giudizi già espressi da molti (tra cui ricordiamo Camus e Mauriac) – accusa di aver assistito, senza elevare la sua protesta, allo sterminio dei sei milioni di ebrei compiuto dai nazisti durante la seconda guerra mondiale.

Ma è pur vero che la ferita è ancora aperta e la polemica sempre pronta a infiammarsi, come ha dimostrato il recente episodio, per altro subito rientrato, avvenuto al Museo Yad Veshem di Gerusalemme (il nunzio apostolico che rifiuta di andare alla commemorazione della Shoah perché offeso dal testo della didascalia posta sotto la foto di papa Pacelli).

Il dramma di Hochhuth s’interroga sul silenzio della Chiesa, e in particolare di Pio XII, di fronte alle deportazioni degli ebrei attraverso la storia di Gerstein, cattolico e antinazista ma suo malgrado al servizio delle SS, e del gesuita Fontana, che tentano invano di denunciare l’Olocausto in Vaticano e per questo fanno una brutta fine.




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