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DA DOVE STO CHIAMANDO. I RACCONTI DI RAYMOND CARVER
RAYMOND CARVER

I personaggi di Carver biascicano parole, muovono se stessi e gli oggetti che li circondano. Spesso aspettano, non si sa bene cosa. Sentono e soffrono, ma sono eco lontane. Poi, qualche volta, un lampo. Mentre il lettore osserva muto le loro vite che si srotolano. Per poi tornare, come dice Carver, alla vita, sempre alla vita.

Stefano Zoja

La tentazione è forte, ma in realtà è difficile racchiudere in poche linee sintetiche la poetica di Carver, per come si snoda lungo 37 racconti scritti in più di vent’anni. Da dove sto chiamando è l’autoantologia dello scrittore, che mette assieme racconti fra i più celebrati (Cattedrale, Penne, Di cosa parliamo quando parliamo d’amore) e alcuni dei meno famosi, scelti fra quelli cui era più affezionato.

Un ragazzo marina una giornata di scuola, va al fiume e pesca il più grosso pesce che gli sia mai capitato, poi torna a casa avvolto dall’indifferenza dei suoi genitori. Una moglie si tormenta in una notte in cui non riesce a prendere sonno, mentre il suo uomo dorme pacifico nel mezzo del loro letto. Un uomo di mezza età va a trovare la sua ex moglie dopo anni, resta in silenzio il tempo necessario per farsi riversare addosso rabbia, incertezza e nostalgie sempre miste al rancore, poi se ne va. Frammenti di vite, spesso scivolate o slittate verso il vuoto.

Sono racconti apparentemente immobili, in cui sembra non accada nulla. I personaggi non agiscono, non desiderano e ancora più spesso non capiscono. Uomini, donne e bambini – uomini soprattutto – che si muovono senza fretta e senza direzione. Come burattini animati da una mano non malevola, semplicemente stanca. Individui che si siedono in poltrona, aspettano, bevono un bicchiere, si abbracciano guardando il muro dietro.

Gli anni passano, o sono già passati, e loro non capiscono e non cambiano. Si portano dietro, o dentro, fardelli di separazioni, di sprechi, di vuoti. La vita, nei teatrini di Carver, è misera. Bisogna fraternizzare, almeno letterariamente e temporaneamente, con questo presupposto per entrare dentro storie fatte di attese e dettagli. Perché tutto si risolve in un’atmosfera, e chi postula il racconto come un concentrato d’azione non dovrebbe nemmeno prendere in considerazione questa raccolta.

Il dono di Carver è quello di far emergere un cuore descrivendo la pelle. La sua penna è sottile, allusiva. Mai viene esplicitato uno stato d’animo: quel che troviamo sempre è la descrizione asciutta di gesti, ambienti o discorsi, la radiografia spietata degli uomini attraverso le loro inconsapevoli scelte essenziali. Un respiro trattenuto, un tamburellare di dita, o una porta che viene chiusa. E mai una parola o un movimento sopra le righe, che manifesti una forza vitale: l’abulia o il senso di sconfitta sottile si è impadronito dei moti dei personaggi.

Eppure recintare Carver nella lirica della sconfitta o del vuoto esistenziale è ingiusto e insufficiente. Ci sono occasioni in cui trapela uno sguardo più dolce, più morbido, come nella formidabile narrazione degli ultimi momenti di vita di Cechov ne L’incarico. Altre volte la narrazione si tinge lentamente di giallo. Anche i contesti variano: da semplici e prevedibili possono farsi surreali, come una coppia che ospita un pavone in salotto, o una giovane e un uomo che ballano una musica immaginaria in mezzo a mobili accatastati in un giardino di notte. Ma gli esseri umani, quelli no, sono quasi sempre semplici, concentrato di mediocrità, individui che producono e subiscono il torpore della provincia americana post-bellica.

Carver viene ritenuto il capofila del minimalismo, corrente che di recente ha prodotto anche scrittori come McInerney. Molte scuole di scrittura lo prendono a esempio: è il campione dell’asciutezza, dell’essenzialità. Non sono le parole gonfie o drammatiche il suo veicolo, e in questo c’è una cesellatura ancora più ammirevole perché quasi invisibile. Con lui la poesia scaturisce dalla realtà, come abbiamo diritto che accada sempre, ogni volta che una vita è osservata da uno sguardo consapevole.



(03/11/2006) - SCRIVI ALL'AUTORE


Amare l'arte è benessere

  
  
 
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