IL SONNO. OVVERO STORIE DA UN VIAGGIO URBANO
Quattro visioni urbane, dal punto di vista del Sonno...
di Nicola Francesco Dotti
Il sonno è un tema che da sempre mi sta a cuore. Se si divedesse il mondo (lo Yin e lo Yang?) tra insonni e dormiglioni, io apparterrei sicuramente alla seconda categoria. E ne farei motivo d’orgoglio. Io sono uno di quelli per cui un sano pomeriggio a dormire non è una giornata persa, ma conquistata.

Il sonno è un piacere semplice, naturale e genuino con poche contro-indicazioni. Sicuramente non da assuefazione, ma se si esagera potrebbero esserci alcuni effetti collaterali come prolungata sonnolenza o, peggio, problemi nelle attività e relazioni sociali. Problemi indubbiamente da lasciare agli esperti.
Mentre scrivo, il pensiero è rivolto ad una persona, oggi un po’ in secondo piano, che mi impressionò. Mi riferisco a Lamberto Dini, ex Presidente del Consiglio nonché ministro degli esteri e attualmente Senatore della Margherita, il quale anni fa divenne famoso per una curiosa classifica comparsa sui giornali. Aveva guadagnato gli onori della cronaca come il personaggio che dormiva di meno d’Italia (circa 2,5 ore al giorno).
A onor del vero, bisogna dire che il primato gli durò fino alla sua carica in qualità di Primo Ministro e spero che, sciolto quel governo, si sia concesso almeno una settimana di grandi dormite.
La questione mi impressionò molto, al punto da ricordarmene ancora oggi e mi portò a fare alcune considerazioni. È curioso notare come in genere, quando si parla dei diritti fondamentali dell’uomo (e della donna perché in tema di sonno la parità è vera), ci si dimentichi spesso del dormire. È noto come venisse (e venga) usato per i prigionieri la cosiddetta “tortura del sonno”, che significa impedire al prigioniero di dormire. Un crimine condannato dalla Corte dei Diritti dell’Uomo.

Tornando a temi più frivoli, come non decantare la poesia del dolce abbandonarsi tra le coperte o sul divano lasciandosi cullare dai pensieri semplici e naturali del sonno? Il dolce appisolamento dopo-pranzo (che mi hanno detto non fare molto bene alla digestione, ma non importa), oppure il tenero torpore di un pomeriggio estivo quando sotto una radura ci si gode le vacanze, i quali rappresentano un diritto per l’uomo che aspira alla felicità?

Ma parlando di sonno e di dormire, ritorno per un attimo alla mia personale passione di studio per gli spazi urbani che rappresenta il centro di questo mio scritto. Credo che il tema si presti benissimo ad una riflessione sulla città, perché credo che il tempo del sonno (in questo caso collettivo, come collettivo è lo spazio che viviamo) sia un ottimo modo per classificare gli spazi urbani.

Il sonno è una chiave di lettura per guardare la società, ma generalmente in tal senso viene omesso. Ho sentito di città raccontate attraverso le evoluzioni genealogiche o, più interessante, attraverso l’evoluzione della cucina tipica, ma mai attraverso il sonno ed il suo tempo naturale, ovvero la notte.


Propongo quindi una classificazione in quattro livelli, progressivamente crescenti

Laddove la notte resta buia significa che ci si trova in un villaggio. La tranquillità della campagna, il silenzio dei campi e qualche sparuto lampione garantito dalla Provincia e che illumina il sagrato della chiesetta rappresentano l’immagine idealtipica di riferimento. Non è un’immagine idilliaca, ma la realtà dei villaggi fuori mano, quelli in cui si sente se uno si alza di notte per andare al bagno.

Salendo di rango si arriva al paese. La grande differenza è che qui la luce è garantita tutta la notte (dal Comune) e la sera è possibile pensare di trovare qualcuno in piazza che si gode un bicchiere di vino. Il paese piace ai turisti isolati, quelli che la sera si godono le trattorie della Via Emilia. In paese, la notte e la sera sono due tempi ben distinti. Si può stare in giro, ma fino ad una certa ora che, chissà come mai, viene rispettata da tutti più del coprifuoco di quando c’era la guerra.

Il terzo livello è rappresentato dalla città, dove oltre alla luce, si sa che tutta la notte si può incontrare qualcuno in giro. Magari sono compagnie che è meglio evitare e allora rimpiangi il fatto di non essere andato a dormire prima, ma la città non dorme mai, al massimo sonnecchia con qualche brontolio. Succede addirittura che qualche notte accada qualcosa, ma per tutti è normale perché siamo in città.

Il rango più alto è rappresentato indiscutibilmente dalla metropoli. Qui non si dorme mai, semplicemente l’oscurità è lo scandire di un ritmo di vita “altro” rispetto a quello del giorno. Se gli uffici sono chiusi, ora aprono altre attività, un altro mondo fatto di luci al neon. La metropoli non conosce la parola “sonno”. La società metropolitana non si addormenta mai.

In questi quattro spazi (e nelle loro vie di mezzo) si innestano le nostre vite, fatte di veglia e di sonno. Può sembrare assurdo usare il sonno per classificare e comprendere gli spazi che viviamo, dico assurdo perché in fondo il sonno è il tempo della non-azione sociale. È per definizione un tempo in cui l’uomo si ritrova solo con se stesso.
Il sonno è un momento di intrinseca solitudine e quindi a-sociale. Ma non è un momento egoistico in quanto necessario per tutti e rappresenta quindi una necessità collettiva. La notte, come tempo riservato generalmente al sonno, è un tempo che nella storia dell’Uomo e della Donna ha subito una mutazione più che copernicana. L’invenzione dell’illuminazione elettrica ha ribaltato tutta la nostra storia. Aveva ragione chi diceva che la lampadina elettrica è la più grande rivoluzione nella storia dell’umanità.
Il sonno ora è un tempo difficile da considerare, soprattutto perché gli strumenti per misurarlo come fenomeno sociale sono quanto mai difficili da individuare. Eppure, il sonno appare uno ideale strumento per comprendere le pieghe del mondo che ci circonda.


(09/05/2005)