LA VERSIONE DI BARNEY. MEMORIE DI UNA VITA STRAORDINARIA
MORDECAI RICHLER


di Stefano Zoja
Lo si può immaginare avvolto in una calda vestaglia mentre, sbuffando, accomoda la sua mole corpulenta alla scrivania, pronto a scrivere qualche altra pagina delle sue memorie.

Barney Panofsky è ormai un uomo curvo e immalinconito da una vita dissipata. Il fumo spesso dei suoi Montecristo e gli inevitabili bicchieri di whisky lo accompagnano anche ora, mentre redige il suo estremo tentativo di difesa morale e materiale dall’accusa di omicidio del suo migliore amico.

Un’accusa dalla quale è stato prosciolto per insufficienza di prove, ma che è agitata dai suoi nemici con incrollabile convinzione e da troppi ritenuta credibile. E allora l’anziano Barney con la risolutezza e l’istrionismo di sempre, scrive per difendersi, per raccontare la sua versione dei fatti. Fra incursioni nel passato e riflessioni presenti Barney srotola la sua vita di ebreo – canadese, trascorsa fra tensioni letterarie e redditizie attività professionali, come l’import – export del formaggio e le produzioni televisive; punteggiata da una varietà di rapporti umani dai più intensi a quelli più ipocriti. E segnata da tre donne, delle quali l’ultima, “l’adorata Miriam”, ha lasciato un vuoto insostenibile nel suo letto e nella sua vecchiaia. Ora che è fuori tempo massimo, tra fantasie, rancori e malinconie, il vecchio Barney affida l’elaborazione di tutto questo a quattro dita di whisky e allo scorrere della penna.

Seguire i saliscendi della vita di Barney Panofsky è un po’ come fare un viaggio in aereo potendo stare nella cabina del comandante. Ed è un volo emozionante, costellato di virate, vuoti d’aria, tempeste; o forse il volo di un aereo acrobatico, di quelli da esibizione. Nel frattempo puoi dare sfogo alla curiosità: hai un punto di osservazione privilegiato e vedi come il pilota manovra la cloche, quali leve tocca, mentre lui ti racconta i come e i perché di quei gesti e di quel volo. Ci è dato di addentrarci, con una curiosità che è quasi voyeuristica, nella mente agile e imperfetta di un uomo che ha condotto una vita densa. Lungo le pagine Barney ingaggia una lotta con la sua memoria e la sua coscienza per far riaffiorare i ricordi di una vita. Spesso sbaglia, a volte esita e forse è addirittura reticente. Ma non importa, questa è la sua versione dei fatti. Ed è questo che ci piace. Perché anche noi abbiamo la nostra, sempre.

Ne esce un ritratto psicologico di una vivacità e di una profondità rare. E’ un personaggio contraddittorio, un uomo fallibile, spesso scomposto perché timoroso della sua mediocrità, esattamente come gli uomini veri. E’umano e ce lo racconta: è fazioso, scorretto e vendicativo, ma anche appassionato, fragile e, qualche volta, persino buono. E ancora: è sarcastico e uggioso, entusiasta e indolente, furbo e ingenuo. Non è certamente un eroe, ma neppure un anti–eroe, non possiamo identificarci pienamente con lui, ma è inevitabile avvertire un senso di complicità. Barney è vivo, diventa difficile credere che non esista. E per giunta ci assomiglia almeno un po’.


Alziamo lo sguardo. Mordecai Richler ha confezionato un piccolo gioiello. Per l’affetto e la gratitudine che si provano dopo averlo letto, verrebbe da augurarsi che i posteri lo eleggano, da piccolo fenomeno di culto che è ora, a classico del Novecento. Resta comunque un romanzo di grande intelligenza e sensibilità, che commuove e porta al riso nel volgere di poche righe. Gli affreschi psicologici dei vari personaggi sono più che realistici: sono pulsanti, catturano. La trama è avvincente, vagamente innestata su un motivo da giallo (quello del presunto omicidio), ma assolutamente eccedente quest’ultimo. In effetti è quasi impossibile racchiudere la storia entro una qualche etichetta: alla fine si ha la sensazione di avere assistito a uno spaccato di vita vera, appena romanzata, ma di quella poesia e “surrealtà” che, a volersene accorgere, è poi presente nella vita di tutti.

Lo stile è vivace e intrigante, quasi troppo se si vuole: i dialoghi sono a volte così brillanti da non apparire più tanto realistici. Ma è un’osservazione ingenerosa, così come quella che avvertirebbe di tenere duro per le prime cento pagine, non perché siano noiose, ma perché risulta un po’ faticoso entrare nel gioco confuso e frammentario della mente di Barney. Ma le altre 380 pagine volano e verso la fine verrebbe voglia di rallentare la lettura. Per non scoprire che il vecchio rompiscatole forse non esiste. Vorremmo sentire ancora dei suoi anni giovanili a Parigi, del suo amico Boogie e del suo rivale Terry Mc Iver. Vorremmo ancora che sospirasse per il vuoto lasciato da Miriam. Che producesse una altro po’ di tv spazzatura o dimenticasse almeno un altro paio dei sette nani. Che creasse, brontolasse o bevesse un altro po’. Vorremmo sentire ancora qualcosa della sua insofferente, adorabile versione della vita.


(08/06/2006)