UN FAUST DA NON PERDERE. ROMA, TEATRO QUIRINO
La compagnia teatrale Mauri-Sturno arriva al Quirino di Roma con l’adattamento teatrale del Faust di Johann Wolfgang Goethe, per la riduzione e la regia di Glauco Mauri. Dal 13 novembre al 9 dicembre.
di Livia Bidoli e Giancarlo Simone Destrero
RECENSIONE DI:
Livia Bidoli

In fondo Faust e Mefistofele hanno molto in comune, soprattutto pensando a quell’anelito che divora sia l’uno sia l’altro, lo streben goethiano, impulso a vivere l’attimo come eternità in un cieco susseguirsi di azioni, l’una dopo l’altra. Roberto Sturno e Glauco Mauri per questo si alternano sulla scena nelle veci sia dell’uno sia dell’altro personaggio.
E il Faust di Goethe che ci propongono è lungo, non quanto quello tedesco di Peter Stein di ben 21 ore, per tutta la durata degli oltre 12.000 versi, quindi al completo, però profondo incanto dell’assoluto, come Goethe avrebbe voluto per la sua opera lunga una vita. L’Urfaust lo iniziò a scrivere nel 1773 a 24 anni soltanto, allo scoccare del nuovo secolo vi lavora quotidianamente, per ultimarlo nel 1832. Vedrà la luce alla sua morte nello stesso anno.

Opera capitale e incommensurabile, nelle parole dello stesso autore, il Faust è la storia stessa dell’angoscia principale dell’uomo, della sua sete di potere e conoscenza, in lotta contro il tempo. E’ una battaglia senza tregua che lo lascia a volte annichilito e che solo Margherita, in fondo, comprende, all’apice della sua follia, redimendo sé e lui stesso, il fuggitivo amante. Faust non è quasi mai cosciente delle sue azioni però, questo un po’ lo scusa e lo esonera da quelle colpe che per altri sarebbero delle semplici crudeltà. Lui è incosciente di aver lasciato Margherita, di essersi lasciato trasportare dalle passioni, perchè esse non sono che metafore del suo cammino, di un Peer Gynt in nuce, di un frammentario e frammentato uomo moderno in dialogo sempiterno con se stesso. Quel parlato che in fondo lo distingue dagli altri esseri umani e lo avvicina all’altro solitario che lo conduce per la via della dannazione, Mefistofele. L’uno specchio dell’altro, si riconoscono in un cercare tipicamente umano che salva Faust dalla dannazione e schermisce l’ironico compagno di viaggio, con laudi angeliche di sottofondo.

Lo spettacolo di Mauri e Sturno si avvicina così ad una parodia, molto appassionante, di come varcare la soglia tragica della consapevolezza della conoscenza, della propria identità riflessa da una porta macchiata di nero e di fucsia, confuse in un amalgama che cola parole, a volte dell’uno, a volte dell’altro. Due giusti epigoni che Goethe avrebbe riconosciuto fra le parole che i riflessi cangianti dei loro abiti proiettavano sul palcoscenico iridato di ombre, confondendosi fra i personaggi, aldilà del tempo e dello spazio che percorrevano.


RECENSIONE DI:
Giancarlo Simone Destrero

Uno dei pilastri della letteratura occidentale. Un testo preesistente a Goethe, ma che il geniale artista tedesco ha reso paradigmatico dell’animo umano. Un archetipo, volendo sconfinare nella classicità che il lavoro del sommo poeta tedesco rimpiange -pur se eternandola nella consapevolezza della definitiva e permanente validità di analisi umana riscontrabile in quell’età aurea.

Un’età tragica, solenne, non disponibile al compromesso. Un’età che ancora non aveva profanato il senso della vita con i dubbi nichilistici o i desideri, appunto, faustistici, sintomatici di un’assoluta incapacità interiore di cogliere l’attimo presente. Un’età che sottende dei valori eterni, umanamente immutabili, che appartengono ai cicli circolari della storia e che vengono sublimati o profanati a seconda delle epoche che si alternano. Che epoca è questa per mettere in scena un classico come Faust? La compagnia Mauri-Sturno, dopo aver portato lo scorso anno sul palco del Quirino l’adattamento del Testo Delitto e Castigo, prosegue nel suo lavoro di riflessione ed interpretazione dei grandissimi classici occidentali. Questa volta, però, sembra farlo strizzando un pochino troppo l’occhio a degli espedienti di facilitazione fruitiva d’attuale utilizzazione.

Un’ironia troppo ammiccante al pubblico, alle volte, di Mefistofele ed il, forse, troppo diretto riferimento alla contingente clonazione umana del personaggio Wagner, sembrano voler far socializzare troppo il sublime assoluto del testo con i nostri tempi particolari. Questo è dovuto anche, probabilmente, alle varie riletture che il Faust ha avuto, in questo periodo epigonale e discendente, dalla morte di Goethe ai giorni nostri. Appunto, un’epoca che sembra aver completamente perso il senso del tragico e quel rapporto con il divino che, pur se apparentemente di matrice cattolica, un classico come Faust pone in primo piano.

Senza comunque andare troppo in profondità nell’esegesi del testo e di questa specifica rappresentazione, in quanto non se ne possiedono i giusti mezzi per farlo, la messa in scena è superlativa e questo è uno di quegli spettacoli teatrali che tutti dovrebbero vedere. La scenografia, come capita sempre nelle rappresentazioni di questa compagnia, è imponente e spesso, come nel primo atto, diventa prioritaria assurgendo quasi al ruolo di un personaggio della vicenda.

Il piano rialzato che circoscrive lo studio di Faust, in realtà è una grande porta di metallo lavorato che spostandosi sul proprio asse delimita ambienti diversi. La luce viene utilizzata magistralmente nelle sue tonalità, soprattutto in concomitanza con i cambi scenografici, ed insieme ai nuovi ambienti delimitati contribuisce a trasformare atmosfera ad ogni cambio scena. Le musiche sono sempre di supporto alla linea drammaturgica della messa in scena e quasi sempre pienamente integrate. La recitazione dei due bravi attori, Glauco Mauri e Roberto Sturno, è, come al solito, un saggio sulla giusta misura della pomposità recitativa ed inoltre, questa volta, è la dimostrazione di come si faccia a mantenere costante l’intensità emotiva interpretando, nello stesso testo, due personaggi ben diversi l’uno dall’altro, nonostante i dilungamenti di analisi psicologica del carattere dell’uno, Faust, e dell’altro, Mefistofele, ed i repentini, improvvisi, cambi di costume sulla scena. L’apparente matrice cattolica, dicevamo. Apparente perché alla fine Faust sembra salvato dalla parte benefica di questa manichea battaglia tra bene e male.

Ma se si prende spunto dalla sapienza pagana -che pregna il mondo classico al quale il testo fa riferimento, ad esempio tutta la parte dell’incontro con Elena e Paride come personificazioni della bellezza- che vede l’unità originaria dei sentimenti umani e dei loro fautori celesti in una sacra totalità indissolubile, dove tutto ha un senso nell’insieme, le istanze tragiche e la natura conoscitiva di Faust non rappresentano altro che le strutture dell’animo umano.

E questa essenza non ha niente da cui redimersi e niente da cui essere salvata, ma soltanto il dovere di magnificare se stessa ed intuire un altrove irrazionale ed ineffabile che le dà senso.

Dove: Teatro Quirino, via delle vergini 7. Roma
Quando:Dal 13 novembre al 9 dicembre, ore 21. Mercoledì ore 19.
Biglietti: Platea 30 Euro (ridotto 24) Balconata 22 Euro (ridotto18) Galleria 16 Euro (ridotto 13). Il mercoledì sconto del 20% sul costo dei biglietti.
Telefono Biglietteria:06 6794585 dalle 10 alle 19 (il Sabato 10-13). Numero verde: 800.013616


(15/11/2007)