LA TERZA MADRE
DUE RECENSIONI UNA STRONCATURA

TITOLO ORIGINALE: La terza madre REGIA: Dario Argento CON: Asia Argento, Udo Kier, Cristian Solimeno, Adam James, Robert Madison, Moran Atias, Daria Nicolodi. ITALIA 2007 DURATA: 95 minuti GENERE: horror DATA DI USCITA: 31 ottobre 2007

La recensione di Stefano Zoja, VOTO 4

Il ritrovamento accidentale di un’antica urna scatena per le strade di Roma la furia sopita di Mater Lacrimarum (Moran Atias), una potente strega nera. La città è percorsa da un vortice di follia violenta, mentre giungono da ogni parte del mondo personaggi inquietanti per inaugurare l’imminente “seconda era delle streghe”. Sarah (Asia Argento), studentessa di archeologia, non conosce i suoi poteri di strega bianca, ma con l’aiuto di alcuni esperti di esoterismo imparerà a dominarli e combatterà Mater Lacrimarum.


Realizzato ventisette anni dopo Inferno (1980), con questo capitolo Argento chiude la “Trilogia delle madri”, che si era aperta con Suspiria nel 1977. Un appuntamento atteso, per il quale Argento ha puntato alto e ha chiamato a raccolta aficionados e critica, quasi a dimostrare l’infondatezza del loro sconcerto di fronte ai film più recenti, con l’improbabile Il cartaio, buon ultimo. Ma la Terza madre è uno dei punti più bassi della parabola argentiana.

La crisi d’ispirazione che affliggeva Argento da almeno quindici anni e cinque film non si è risolta. A forza di scusare la fragilità delle sceneggiature e degli attori in nome del suo talento visuale, Argento sembra trastullarsi con questo, trascurando oltre il sopportabile le prime. Addirittura qui servono solo dieci secondi di film perché venga ritrovata accidentalmente l’urna dello scandalo. Una decisione in sé coraggiosa, e forse in realtà una delle più azzeccate nello script, che vuole offrire semplicemente sangue e spaventi ed evita esitazioni e intellettualismi. Ma anche una scelta che la dice lunga sulla convinzione di Argento di non essere tenuto a spiegare, a giustificare, a inquadrare gli eventi.

E allora gli snodi narrativi, la costruzione dei personaggi, persino i dialoghi sono striminziti e soprattutto trascurati, pescando con disinvoltura nel clichè e impantanandosi nella comicità involontaria con una frequenza disturbante. Va da sé che recitare (bene) in queste condizioni diventa impossibile. Argento è scivolato dall’essenzialità nella sciatteria e non si capisce se se ne sia accorto.


Tutto questo in nome della ciccia e dell’arrivarci in fretta. Ma la ciccia nel caso di Argento sono carne, sangue e, possibilmente, le care, vecchie inquadrature. E queste ultime latitano. Sono probabilmente due le scene all’altezza del suo passato: quella iniziale nel museo e un lungo piano-sequenza in cui non capita niente, tranne la tensione dello spettatore. Per il resto tanta carne esibita, tanto sangue, buoni effetti speciali artigianali (ma quelli digitali sono piuttosto miseri). Troppo poco e troppo facile: si va prevalentemente per accumulo e la capacità di inquietare e spaventare del passato, viene sostituita da uno stile “Gore patinato”.

Anche le buone intuizioni, come quelle di una Roma sconvolta, dove esplode una follia indistinta – e si coglie la tentazione della critica sociale – si disperdono di fronte a scivoloni sia di scrittura (le tragicomiche scazzottate sullo sfondo di ogni scena in esterni dalla metà del film), sia tecnici (di un’evidenza imbarazzante il bambolotto che precipita dal ponte).

Restano alla fine sguarnite sia la tensione narrativa che la qualità estetica. Ma se da Argento non si sono mai pretese sceneggiature di ferro (eppure Tenebre o Profondo rosso si reggevano in piedi) o speculazioni filosofiche (pure, in controluce, frequenti), almeno ci si attendeva della sana inventiva horrorifica, la sapienza estetica al servizio del brivido.

Era un visionario innovatore; è diventato, da oltre quindici anni, prigioniero del suo stesso mito, un manierista che fatica a emulare il proprio stile. Dario Argento è stato negli anni Settanta un maestro. Ha creato uno stile e persino una poetica riconosciute e imitate; la sua capacità di stringere le viscere degli spettatori muovendo la macchina da presa nello spazio e nel tempo, cioè attraverso l’essenza visiva del linguaggio cinematografico, è stata riconosciuta sempre, anche da chi lo ha accusato nei decenni di furbizia.

Ma negli ultimi lavori a uno smottamento ulteriore dei contenuti si è accompagnato un impoverimento dello stile. La mano è sempre quella, e talvolta emerge, ma la classe di trent’anni fa, la cura maniacale dei dettagli visivi, la sofisticatezza delle soluzioni estetiche si è persa. Potrebbe provare ad appaltare in toto le sceneggiature e concentrarsi sulla regia; potrebbe lavorare più sulle atmosfere e meno sul sangue; potrebbe, come dice provocatoriamente qualcuno, dedicarsi ai cortometraggi, nei quali sarebbe impeccabile. Ma oggi, di fronte a La terza madre, si capisce perché i fan di Argento sospirino e persino la critica, immalinconita, non se la senta più di affondare il coltello.


La recensione di Giancarlo Simone Destrero, VOTO 4,5

Un’antica urna legata ad una bara, e contenente il mantello ed alcuni oggetti appartenuti a Mater Lacrimarum, viene rinvenuta e dissotterrata poco fuori le mura del cimitero di Viterbo. Il rinvenimento scatena una serie di eventi terribili e malvagi, il male torna ad oscurare Roma, città in cui da secoli si nasconde la terza madre, l’unica sopravvissuta delle tre streghe che da secoli spargono il male ed il dolore in tutto il mondo. L’urna arriverà nelle mani di Sarah Mandy, giovane restauratrice archeologica, che attraverso un’escalation di violenze e di rivelazioni verrà a conoscenza del suo inevitabile destino.

L’impero del bene coi suoi rappresentanti terreni, senza macchia, in tonaca nera contro l’occulto non integrato e, quindi, maligno ed anticristiano. Una predestinata, che viene a conoscenza della propria condizione di ultimo baluardo del bene, grazie ad un sommario apprendistato magico, nonostante lo scetticismo iniziale su tutto ciò che non è scientificamente dimostrabile. L’assoluto essere malvagio, vivente su questa terra, che è causa dei mali del mondo occidentale e che dovrà essere sconfitto mortalmente per evitare che imponga la sua nefasta tirannia sul mondo. Lo scontato scontro finale fra questi due personaggi.

Questa la banalità drammaturgicacui si riduce l’ultimo capitolo della trilogia delle tre madri di Dario Argento. Una storiella tanto semplice e prevedibile che sgretola l’aura di soprannaturale che dovrebbe permanere attorno al tema, rendendo il tutto risibile, a causa di una presunzione mistica e dei sensazionalistici espedienti sanguinari.

Ventisette anni -tanto il tempo trascorso da Inferno che è il secondo dei tre film- di gestazione, hanno trasformato le suggestioni atmosferiche e l’ineffabile mistero, che erano la vera forza di quei film del regista romano, in un’accomodante suspence da fiction televisiva.

Un compiacente manierismo che vuole dare in pasto agli spettatori l’evento tanto atteso in un formato convenzionale, seppur sedicentemente orrorifico. Ma l’orrore in questo caso, e come capita ai film di Argento da almeno vent’anni, è pura pornografia, assoluta incapacità di andare a fondo e scuotere le corde irrazionali del pubblico.

Non che il regista abbia mai avuto pretese filosofiche o abbia sfruttato una storia in maniera pretestuosa ( il suo cinema è stato sempre fatto per spaventare, per creare suspence e per inquietare con le situazioni ed il materiale messo in scena), ma basta confrontare questo film con gli altri due, il primo è Suspiria, il più riuscito dei tre, per capire come la necessaria terapia filmica che Argento inventava liberamente per dar sfogo ai propri incubi, e che sostanziava il film della sua personale originalità, si sia pacificata con il contemporaneo piattume di genere cinetelevisivo, destinato ad ogni tipo di mercato.

Certo resta magistrale la disinvoltura tecnica dei movimenti di macchina con cui Argento racconta la storia e porta avanti il film, anche se proprio l’utilizzo canonico degli spazi, in concomitanza con quello della luce, sembrano essere due concause della scarsa incisività de La Terza madre. Un velo pietoso sulla recitazione di Asia Argento, che sembra sempre essere capitata nel film per caso; mentre l’apparizione della terza madre sullo schermo non fa altro che conturbare gli spettatori maschili, distraendoli dal già debole climax di paura, sciogliendo la vicenda in un’orgetta visiva da thriller erotico di serie b.


(05/11/2007)