LA FORTEZZA DELLA SOLITUDINE
JONATHAN LETHEM
Trent'anni di storia americana narrati da Jonathan Lethem in un libro che è potente e ricco come un grande affresco.

di Miriam Giudici
Sono pochi i narratori capaci di condensare in un'unica opera tanti elementi diversi: le piccole storie private e il ritratto di un'epoca; potenti personaggi protagonisti, e vividi personaggi secondari; riflessioni rivelatrici su argomenti che paiono irrilevanti, e squarci inaspettati su temi difficili, che infiammano il dibattito contemporaneo. Se poi ci si propone di farlo in un romanzo che si snoda lungo gli ultimi trent'anni di storia americana, l'impresa diventa ardua: alla portata solo di uno scrittore di razza, in grado di cogliere con un solo sguardo il generale e il dettaglio, capace di tracciare figure e storie indimenticabili.

Jonathan Lethem riesce nell'intento, e si conferma una delle voci più importanti della narrativa americana di oggi, con il suo sesto romanzo, La fortezza della solitudine (2004), edito in Italia da Marco Tropea. Che si apre mettendoci davanti agli occhi uno dei temi più sentiti, discussi, difficili del nostro tempo (ma non solo): il razzismo, l'essere diversi, l'essere emarginati. La questione ci viene presentata, però, in modo capovolto. E tutto assume sembianze diverse.

Ci immergiamo in una strada di Brooklyn, Gowanus, ma la vediamo con gli occhi di Dylan Ebdus, uno dei pochissimi ragazzi bianchi del quartiere: i suoi genitori, due hippies impegnati e radicali, hanno scelto di trasferirsi a Gowanus di proposito, con la precisa intenzione di provare a tutti che la convivenza e l'integrazione sono possibili, quasi che le differenze non esistono.

Ma ben presto qualche verità viene a galla. La madre di Dylan lascia la famiglia e il padre Abraham decide di passare le giornate nella sua “fortezza della solitudine”: in soffitta, a dipingere fotogramma per fotogramma il film della sua vita e a illustrare riviste di fantascienza per sopravvivere.

E così è il piccolo Dylan che deve affrontare direttamente, da solo, le strade della metropoli: deve crescere, difendersi, sopravvivere giorno dopo giorno a una sorta di razzismo al contrario, agli scontri con le bande del quartiere, alle angherie piccole e grandi a cui è sottoposto. E che gli danno una coscienza, molto più completa e vera di quella che hanno i suoi genitori, di certe dinamiche sociali e razziali che regolano nel profondo la vita delle persone.

Comincia così un difficile cammino a ostacoli: strade da prendere o da evitare, comportamenti da ostentare o nascondere, musica da ascoltare o non ascoltare, amici e nemici da scegliere con cura. Rimanendo sempre soli.

Finché a Gowanus non arriva un altro outsider: Mingus Rude, ragazzino nero figlio di una stella (spenta) della musica Black. Mingus è diverso, ma in un modo che incute rispetto: è più sveglio, più ricco, più veloce degli altri; può essere facilmente un capobanda, ma inaspettatamente stringe con il bistrattato Dylan una forte amicizia.

Resistente agli alti e ai bassi della vita, alle strade che si separano, ai cambi di scuola: insieme Dylan e Mingus condividono giochi, musica, fumetti.
Soprattutto fumetti, comics per dirla all'americana: tanto che insieme i due amici si inventano il personaggio di Aeroman, supereroe volante con un anello dotato di strabilianti poteri. E poi, condividono una forma d'arte nuova, che nasce dal basso e dà agli emarginati la possibilità di lasciare un segno colorato, visibile, un grido sui muri della città: i graffiti, la spray art, nuova forma di espressione che esplode nella New York di fine anni Settanta.


Dylan e Mingus sono totalmente immersi in questa cultura/controcultura che li unisce nella loro adolescenza. E che poi li divide: perché di questo mondo fa parte anche la droga, protagonista dell'episodio-chiave che chiude la prima parte del romanzo e sancisce una rottura, fra Dylan e Mingus e nelle vite di ognuno dei due. Mingus conoscerà la prigione, mentre Dylan rientrerà nei ranghi della normale vita da “ragazzo bianco”: la ribellione vissuta ora alla maniera dei bianchi – cioè attraverso una musica “bianca” come il punk; Brooklyn lasciata per Manhattan; il college; le fidanzate; un futuro da giornalista musicale.

Ma le vite di Dylan e Mingus sono troppo saldamente intrecciate perché la separazione duri per sempre: i due si ritroveranno ancora una volta, in un epilogo che ribadisce l'importanza delle esperienze e dei sogni condivisi in quell'età di mezzo fra infanzia e vita adulta. Qualcosa che si tiene dentro per sempre, al di là del passare degli anni e dello scorrere impetuoso della vita.

Parallela alle vite di Dylan e Mingus scorre la storia dell'America: non la Storia dei grandi eventi politici, ma quella della società e della cultura, dell'arte e della musica. La fortezza della solitudine è infatti anche un viaggio dentro trent'anni di musica americana: dal soul al funky, dal punk alla disco music, fino al rap e all'hip-hop; generi musicali che portano nel loro dna la ribellione e l'anima dei diversi gruppi sociali ed etnici che li hanno creati, ancora una volta seguendo quella distinzione che è la base di tutto il romanzo: bianco o nero.

Bianco o nero è anche un certo modo di vivere l'arte. Ritirarti a dipingere in un eremo; o urlare la tua rabbia sui muri della città; o riunire il tuo vecchio gruppo r'n'b; o ancora stare a guardare e a descrivere, da giornalista, le vite degli altri: è questione di scelte, e di vissuto personale, e anche di razza.

Ma parallelo a tutto questo scorre un altro grande fiume, nelle cui acque tutti si bagnano: quello della droga, che nelle diverse sue forme (erba, cocaina, crack) e nelle diverse sue facce (da quella seducente e psichedelica di inizio anni '70 a quella scopertamente feroce e distruttiva degli anni '80) inonda le vite di ognuno, determinando le svolte più importanti. Qui non c'è bianco o nero, ma un destino comune.


(28/09/2007)