RIVOLUZIONE VERDE
GLI STATI UNITI E L’AMBIENTALISMO CONVENIENTE

La conclusione del G8 in Germania porta un’altra delusione sull’impegno dei governi nella lotta all’inquinamento. Nemmeno Bush ha dato seguito alla svolta ecologista proclamata la settimana scorsa. Ma dalla svolta ecologista, al di là delle considerazioni etiche, avrebbero tutti molto da guadagnare. Stati Uniti in testa, come spiega anche un giornalista del New York Times.
di Stefano Zoja
L’aggettivo scelto è “sostanziali”. E’ bastato sostituire qualche numero con questa parola e, senza grandi mal di pancia, ecco l’accordo. Angela Merkel chiedeva un impegno per tagliare del 50% entro il 2050 i gas nocivi emessi negli stati facenti parte del G8. Con lei Francia, Italia, Canada e Giappone. Contro, la Russia e, prevedibilmente, gli Stati Uniti del petroliere ecologista Bush. Una storia già vista. E allora via libera ai “tagli sostanziali”. Flash, sorrisi, pacche sulle spalle. Merkel e Sarkozy si compiacciono, Prodi e Bush vanno a cena insieme. E cari saluti al G8 di Heiligendamm.

Alla conclusione del vertice erano state invitate anche le potenze emergenti: Cina, India, Brasile, Messico e Sud Africa. Cina e India, le più rappresentative, hanno fatto qualche promessa sulla riduzione delle emissioni, ma ritengono che i primi passi li debbano compiere gli otto grandi. Singh, premier indiano, ha evocato “responsabilità comuni, ma diversificate”. Bush ribatte che senza un coinvolgimento pieno dei paesi emergenti non firmerà accordi più vincolanti. I paesi europei abbozzano. Il G8 si è spento senza risultati “sostanziali”. Inclusi gli arroccamenti sullo scudo spaziale e gli sterili giroconti a sostegno dell’Africa. Ma queste sono altre storie.

Mentre Bush stenta a indossare con disinvoltura la nuova divisa da paladino dell’ambiente, e i vari capi di governo cincischiano, sul New York Times Magazine è uscito un illuminante articolo di Thomas Friedman, dal titolo “Il presidente verde”. Il senso di quanto scrive è pressappoco questo: in un immediato futuro gli Stati Uniti dovranno eleggere un presidente realmente ambientalista, perché questo porterà soldi, prestigio e forza politica alla nazione. Aggirato così il consueto disinteresse che circonda le motivazioni etiche o filosofiche della lotta per l’ambiente, Friedman si fa ancora più provocatorio ed esplicito: l’America forse non è pronta per un presidente nero (Obama), o donna (Clinton) ma ciò di cui ora gli Stati Uniti hanno improrogabilmente bisogno è il presidente verde.

Perché diventare verdi? Friedman, con pragmatismo statunitense, lo spiega così: l’ambientalismo è geostrategico, geoeconomico, capitalistico e patriottico. L’argomentazione disincantata e apparentemente cinica sottende in realtà una visione molto lucida della crisi ambientale come opportunità. Lo stesso Al Gore è solito ricordare come l’ideogramma cinese che rappresenta la parola crisi è composta di due caratteri: il primo è il simbolo del pericolo, il secondo quello dell’opportunità. Friedman sa che per fare presa sull’opinione pubblica americana, oltre che sulla classe politica, è utile mostrare i vantaggi pratici della lotta per l’ambiente. Ed esibisce una visione sistemica della questione di grande acutezza.

Petrolio e libertà – Ecco la cosiddetta prima legge della “petropolitica”: il prezzo del petrolio e il cammino della libertà si muovono sempre in direzioni opposte nei paesi che dipendono fortemente dalle esportazioni di greggio e hanno istituzioni deboli o addirittura governi autoritari. Negli ultimi anni il prezzo del barile di petrolio è salito con costanza: dai 10-30 dollari degli anni novanta, ai 50-70 degli anni recenti.

Il barile a prezzi economici induce i paesi esportatori (come Iran, Nigeria, Venezuela, Arabia Saudita, Siria, Sudan, Egitto) a cercare di attrarre gli investitori stranieri con un atteggiamento politico prudente e più libertario. Viceversa, il barile forte spinge facilmente a un’impostazione autoritaria: le statistiche parlano di meno elezioni libere, meno giornali liberi, meno progressisti nei parlamenti, meno partiti politici e ong.

La guerra irachena, per fare solo l’esempio più eclatante, ha per gli Stati Uniti costi spaventosi sotto ogni aspetto. Vite umane, soldi, immagine, senza contare il fallimento del presunto obiettivo dell’esportazione della democrazia. Ma se è vero che il costo dell’oro nero è fortemente correlato con la diffusione dei regimi autoritari, non avrebbero gli Stati Uniti una forte convenienza strategica nel cominciare a disinvestire sul petrolio?


L’oro verde – Le tecnologie pulite possono rivelarsi una miniera. E’ un intero sistema che cambierà: non solo pannelli solari o centrali eoliche, ma auto e locomotive sempre più pulite, frigoriferi a risparmio energetico, sacchetti riciclabili, detersivi biologici, confezioni sempre più ridotte e decomponibili per i vari prodotti.

Se la Cina ora sta prendendo le redini dell’economia globale, lo deve in gran parte alla sterminata manodopera a basso costo di cui dispone. Non solo: la Cina al momento definisce anche il prezzo base a cui si compra l’energia (quella sporca prodotta con il carbone): il prezzo cinese è bassissimo. La sfida per gli Stati uniti (e per chiunque intenda cimentarsi e competere) è questa: arrivare a produrre energia che costi quanto quella cinese ma che sia pulita, più efficiente. Insomma, energia conveniente, che verrebbe comprata anche dal cittadino più disattento ai problemi globali.

Il modo più rapido per arrivare al prezzo cinese per l’energia pulita è aumentare l’efficienza energetica scrive Friedman. E l’efficienza energetica si raggiunge attraverso la ricerca: le competenze, di cui Stati Uniti ed Europa sono ricche, potrebbero prendere nuovamente il sopravvento sulla manodopera, come propulsore della crescita economica. In spiccioli: una lampadina dai consumi irrisori, per il risparmio che garantirebbe all’acquirente, avrebbe ottime probabilità di sopravanzare una lampadina tradizionale, meno costosa in negozio, ma più onerosa nei consumi.

E’ una questione di rapidità e di visione strategica: il mercato ecologicamente corretto è uno sviluppo inevitabile, non solo per motivi puramente ambientali, ma anche e proprio perché potrebbe essere la nuova e competitiva frontiera del libero mercato. Tocca ai governi – come è successo col protocollo di Kyoto – aprire le danze, attraverso norme che inducano le imprese a compiere i primi passi verso le tecnologie pulite. Tassando le emissioni o incentivando le ricerche, per esempio. Le imprese migliorerebbero i loro standard, fino al punto in cui i governi fornirebbero loro un nuovo impulso, e così via. E’ uno scenario realistico e conveniente per tutti, che presuppone semplicemente che governi e imprese guardino a dopodomani.

Il consenso riciclabile – Ultimo ma non ultimo articolo del prontuario ecologista che ogni presidente deve avere con sé, è il tornaconto elettorale. Un mondo più sicuro e libero e una nazione più ricca e felice sono ottimi argomenti cui un aspirante presidente può ricorrere per convincere un elettorato tiepido e disattento sui temi ambientali. Incidentalmente questo mondo e questa nazione saranno anche più verdi, sani e armoniosi, ma il messaggio che vincerà sarà quello patriottico e progressista di chi sa come far prosperare i propri concittadini.

La crisi ambientale ed energetica, nelle parole del filantropo americano John Gardner, è una serie di grandi opportunità mascherate da problemi insolubili. Se si pensa alla conclusione del recente G8, si coglie quanto ancora sia distante dai leader mondiali questa tipologia di ragionamenti, pure così concreti. Ma è la storia di molti movimenti di importanza storica: prima che nelle stanze dei palazzi, sono stati avvertiti e avviati nelle piazze. Negli scenari disegnati poco sopra la cittadinanza era assente o aveva un ruolo del tutto passivo. Invece è il terzo polo ineliminabile, oltre a stato e imprese, di qualsiasi trasformazione sociale. E se fosse lei a scuotersi per prima dal torpore?


P. S. Una doverosa postilla. Quello di Friedman è giornalismo di alto livello, da tutti i punti di vista: scientifico, geopolitico, stilistico e, in controluce, persino morale. Al suo interno viene ricordata la frase del pensatore – statunitense – John Gardner. E vengono citati studi di gruppi di ricerca americani avanzatissimi, in grado di mettere testa e cuore sulla questione ambientale con rara efficacia. Gli Stati Uniti, ora rappresentati nel mondo da Bush e da certa incultura della provincia profonda, sono anche questo: avanguardia culturale in ambiti decisivi per il futuro prossimo dell’umanità. Non è la volontà di potenza del preteso leaderismo ambientale di Bush, è la capacità propulsiva si svolgere un vero ruolo di guida per la transizione mondiale, in armonia con alcuni principi sani della tradizione culturale americana. Un processo che non può che essere multilaterale, ma nel quale gli Stati Uniti potranno avere un forte ruolo di traino, anziché di freno, come accade ora.


(11/06/2007)