DA BORGES ALLA ZANZARA DOMINATRICE. INTERVISTA A FERNANDO SORRENTINO
Memoria e pensiero di uno dei principali scrittori argentini contemporanei.
di Stefano Zoja
“C'è un uomo che ha l'abitudine di picchiarmi con un ombrello sulla testa. Sono cinque anni proprio oggi dacché ha cominciato a picchiarmi con l'ombrello sulla testa. I primi tempi non riuscivo a sopportarlo, ora mi ci sono abituato”.

Così comincia uno dei più celebri racconti di Fernando Sorrentino, uno dei principali scrittori “hispanohablantes” contemporanei. Che racconta anche di mostruosi padri a forma di pesce, di zanzare dominatrici di uomini, di esistenze condotte senza uscire di casa.
Argentino di Buenos Aires (un “porteño” doc, come dicono con orgoglio gli abitanti della capitale), gaudente e provocatore, amante dei temi e dei toni surreali, quasi fosse inevitabile per chi vive da quelle parti, come lo era stato per Borges. Ed è proprio l’autore dell’“Aleph” che Sorrentino ha potuto conoscere e intervistare in gioventù, pubblicando un libro, le “Sette conversazioni con Borges”, che è stato tradotto anche in italiano (anche se ora risulta difficilmente reperibile).
Ancora poco noto in Italia, dove da tempo la forma del racconto incontra seri ostacoli, Sorrentino in quest’intervista ci racconta due o tre cose di sé e della letteratura, del giocoso Borges e della contraddittoria Argentina…

D. Lei è una persona allegra, come si intuisce dai suoi racconti? Lo è sempre stata?

R. Diciamo che, quando mi trovo con amici o con persone che mi piacciono, sono solitamente molto allegro e ho il dono di un grande senso dell’umorismo. Però, allo stesso tempo, trovo tante persone nel mondo che non mi vanno a genio; se non c’è alternativa a relazionarmi con loro, li sopporto stoicamente, pensando che nessun male dura per sempre. In ogni caso credo di essere una persona piacevole, perché noto di continuo l’affetto con cui mi tratta la gente.

D. Come e perché è diventato scrittore?

R. Credo che sia una specie di “processo naturale”. Fin da quando ero molto piccolo (praticamente da quando ho imparato a leggere) diventai un lettore insaziabile. E, come ogni persona che legge, un bel giorno tentai anche di scrivere. Credo che leggere e scrivere siano due facce della stessa moneta.

D. Dice che scrive poco e preferisce leggere, perché? A che altro si dedica?

R. Nel 1968 diventai professore di spagnolo, letteratura e latino, e questo è rimasto il mio lavoro principale dal 1969 a oggi. Vale a dire che ho vissuto quasi sempre col mio modesto stipendio da professore di liceo. Contemporaneamente ho portato avanti diverse collaborazioni con il mondo editoriale, e continuo a farlo. Inoltre ho pubblicato moltissimi articoli di argomento letterario o linguistico su diverse riviste argentine, spagnole e di altri paesi.
E scrivo poca narrativa per una semplice ragione: dal punto di vista letterario sono – come Borges e fatte salve le astronomiche distanze – un tipo inevitabilmente edonista. Sono già molti anni che ho smesso di leggere per senso del dovere: se comincio un libro e non mi piace o mi annoia o mi stanca lo lascio perdere e non mi importa se tutta la critica del mondo lo celebra come un capolavoro. La stessa cosa mi succede quando scrivo: vado avanti finché il racconto fluisce con facilità, ovvero fintanto che scrivere mi dà piacere; quando il racconto mi prospetta molti ostacoli e non riesco a dargli la forma che sto cercando, mi dico che non ero destinato a questo racconto. Allora lo lascio lì e se non capita qualcosa che mi faccia tornare il piacere, beh, non fa niente: non scrivo nulla e il mondo non si fermerà per questo.


D. Come nasce un suo racconto?

R. Non è facile determinarlo. In generale tendo a pensare a situazioni insolite, quasi fossero il seme del racconto. Una volta trovata un’idea che sia peculiare (un uomo che dà ombrellate a un altro, un uomo dominato da una zanzara, una casa invasa dagli scorpioni, dei vicini di casa che competono facendosi reciprocamente regali), scrivo la storia, a tutta velocità, fino alla conclusione. Successivamente la correggo e la riscrivo, e non una volta sola ma diverse.

D. Chi è il suo lettore ideale?

R. Io non penso al lettore con l’intenzione di conquistarne il più possibile, o di ottenere l’approvazione di un certa frangia della critica. Il lettore ideale sono io stesso: quando scrivo faccio in modo di scrivere ciò che a me piacerebbe leggere.
Sono esattamente l’opposto di certi scrittori argentini che si comportano come fossero i servitori dei critici: pavidamente scrivono in modo da ottenere il consenso di tale o talaltro professore universitario che potrebbe glorificarli o condannarli per sempre, mentre a me ispira il più distaccato disprezzo.

D. Lei racconta di uomini che prendono a ombrellate altri uomini, di acide professoresse che ingoiano con piacere ragni di plastica, di persone isolate nella propria casa per anni. Cos’è la “surrealtà”? Perché il surreale è un buon modo per parlare del reale?

R. Il fatto è che a me non interessa “l’arte fotografica”, cioè la smisurata (e assurda e impraticabile) ambizione di riprodurre la realtà. Non mi intendo quasi per nulla di pittura, e non sarei in grado di dire se un certo quadro è stato realizzato bene o male: ciononostante posso dire di essere rimasto affascinato (questa è la parola) davanti ai quadri di Bosch o di Bruegel il Vecchio.
Allora, passando alla letteratura… Non rinnego in termini assoluti il cosiddetto “realismo”, ma rifuggo dal “realismo noioso”. Per esempio, Charles Dickens è un autore realista, ma è un autore realista meraviglioso, perché le sue storie sono colme di peripezie avvincenti, che meritano il mio plauso e la mia ammirazione senza limiti. Però, diciamo, non so…, diciamo Balzac, che è più o meno dello stesso periodo… Durante la mia gioventù (allora ancora leggevo per senso del dovere) ho letto tre o quattro romanzi di Balzac e mi sono mortalmente annoiato, e ciò che è sicuro e che non ricordo nemmeno una parola di quei libri. Perché? Perché in quelle storie non succede nulla che meriti di essere definito “interessante”.
A questo punto della mia vita posso avventurarmi a fare un’affermazione categorica: fra gli autori che conosco, credo che il narratore più grandioso, di sempre e di ogni luogo, sia un signore che si chiamava Franz Kafka! Lui sì che non mi annoia mai.

D. Perchè la letteratura argentina contemporanea tende così facilmente all’astrazione e alla metafora (Borges, Cortazar, lei stesso)? Come mai questa distanza dalla schiettezza e dalla semplicità d’espressione della cultura popolare latina?

R. Le astrazioni e le metafore per essere efficaci devono originarsi, per quanto sembri paradossale, in un’espressione concreta e letterale, in modo che sia il lettore a costruire astrazioni e metafore a partire dalla propria lettura. Direi che la letteratura argentina (in una certa misura, beninteso, non nella sua totalità) tende al fantastico o, perlomeno, all’insolito. Però questo richiede un lavoro molto raffinato e un apporto “realista”: tanto Julio Cortazar, come Manuel Mujica Lainez e Marco Denevi, sono maestri nel creare un contesto “reale” accettabile per il lettore, però le loro narrazioni rifuggono dal mero realismo fotografico: sono molto più ricche, producono risonanze e livelli di lettura infinitamente più elevati.


D. In una frase, cosa lascia Borges alla storia della letteratura?

R. In una frase? Io la metterei al contrario: che cosa non lascia Borges alla storia della letteratura? Tutti noi che abbiamo, diciamo, una certa sensibilità letteraria, l’abbiamo appresa da Borges. Fino al 1944 (quando venne pubblicato Finzioni) era possibile scrivere con un certo candore e pressappochismo, con molta autoindulgenza… Borges ci ha insegnato un altro modo di scrivere. Scrittori argentini che prima di lui sono stati particolarmente apprezzati (Roberto J. Payrò, Manuel Galvez, Leonidas Barletta, Eduardo Mallea e tanti altri), ora, posti di fronte allo specchio di Borges, appaiono davvero meno che mediocri.

D. Quanto Borges è una magnifica fonte d’ispirazione per la letteratura argentina successiva e quanto, invece, è un padre ingombrante? In altre parole, Borges ha posto una sorta di ipoteca sulla letteratura argentina?

R. Posso parlare solo per me stesso e non so cosa pensano gli altri scrittori. Borges non solo non risulta un ostacolo per me, ma costituisce una costante fonte d’apprendimento. Lo leggo e lo rileggo di continuo e mi trovo sempre affascinato da qualcosa di nuovo. Però io – che mi considero sufficientemente assennato – non ho la pretesa di paragonarmi a Borges; e tuttavia lui resta lì dov’è, un punto di riferimento ineludibile. D’altra parte non vedo come un eccellente scrittore possa essere vissuto come opprimente, o iperesigente, o, secondo la terminologia psicanalitica, castrante per altri scrittori. Ricorrendo a un parallelismo popolare, sarebbe come se per colpa di Maradona non nascessero più buoni giocatori di calcio…
Credo che sia esattamente il contrario, proprio l’eccellenza di Borges deve servire da stimolo in modo che siamo più esigenti e rigorosi con noi stessi. Sarebbe stato molto triste, per esempio, se al posto di Borges ci fossimo dovuti rassegnare a mantenere come punto di riferimento alcuni dei mediocri narratori di cui ho parlato prima.

D. Che persona era Borges?

R. Un uomo molto intelligente e colto. Un uomo che poteva dissertare con totale padronanza tanto della Divina Commedia, quanto del tango o della letteratura “gauchesca”… Inoltre aveva una rapidità di pensiero e una capacità d’improvvisazione quando chiacchierava, che non ho mai trovato in altre persone. E, per aggiungerne un’altra, direi che Borges era un principe dell’ironia, capace del sarcasmo più terribile e, al contempo, della faccia più angelica.

D. Ricorda un aneddoto curioso della sua conoscenza con Borges?

R. Nella lontana epoca in cui ero un impiegato amministrativo di una compagnia industriale di Buenos Aires, vidi Borges che usciva da una fermata della metropolitana e, come spinto da un impulso istintivo, corsi verso di lui, lo salutai e gli recitai parti di alcune sue poesie… Tipico, in fondo, di un giovane entusiasta… La cosa divertente fu che quando gli recitai le prime strofe della sua poesia “El tango” (perché lo feci? Volevo convincere Borges che ero davvero un suo grande ammiratore?), beh, quando recitai quelle strofe (che sapevo, e continuo a sapere a memoria), Borges sorrise e mi disse: “Che voglia che hai di perdere tempo, a leggere queste sciocchezze…”. Che simpatico!

D. Nei suoi racconti vengono spesso citati luoghi precisi e riconoscibili di Buenos Aires. Qual è il suo rapporto con la città?

R. La mia relazione è di amore totale, visto che sono da sempre un “porteño”, un abitante della vecchia Buenos Aires. Qui nacqui nel 1942 e tutta la vita sono rimasto in questa città immensa che include tante città differenti: sensuale e brutta, splendida e sudicia, adorabile e irritante… La conosco piuttosto bene, sia nella quotidianità che nella sua storia. Mi piacciono le foto antiche, mi piace il tango, mi piace il calcio… In fondo credo di essere proprio un tipico porteño, ammesso che si possa dire una cosa del genere.


D. Negli ultimi trent’anni l’Argentina è stata il paese delle Madri della Plaza de Mayo e dei piqueteros, ma anche la nazione che ha dato tanto credito a Menem, o che si è lasciato facilmente sedurre dai Mondiali di calcio del ’78, mentre la dittatura consolidava i suoi crimini. Come spiega la convivenza di due atteggiamenti così diversi nel popolo argentino?

R. Non so, senza dubbio esiste una specie di schizofrenia collettiva, non so come dirlo… Però allo stesso tempo sarebbe semplicistico dire che, visto che stava sotto una dittatura, la gente avrebbe dovuto smettere di guardare le partite del mondiale del 1978. Seguendo lo stesso criterio, sotto una dittatura nessuno andrebbe al cinema, guarderebbe la televisione, o mangerebbe piatti gustosi, o si farebbe una passeggiata…: si compirebbe una specie di penitenza assoluta… Tuttavia ora, dopo tanti anni, è molto probabile che le stesse persone che si sgolarono per i gol argentini nel 1978, nel 2007 affermerebbero di non avere visto neanche una partita…

D. Per uscire dalla crisi cosa deve cercare di fare il popolo argentino? E cosa invece dovrebbe evitare?

R. Siccome mi considero abbastanza patriottico, aborro in maniera assoluta i traffici della politica argentina, e soprattutto aborro i politici argentini, che considero un’inesauribile fonte di disonestà e corruzione. Finché non avremo una classe dirigente onesta non vedo cosa potremmo fare noi, gente umile del popolo, che non abbiamo il minimo potere decisionale. E che, come se non bastasse, dobbiamo mantenere e alimentare questa genìa di bugiardi parassiti.

D. Secondo lei c’è un ruolo particolare che uno scrittore deve svolgere di fronte a una crisi del proprio paese?

R. Ogni scrittore avrà la propria opinione. Per quanto mi riguarda so perfettamente di non poter scrivere alcunché di fronte a una crisi: manco di potere, di convinzione e di vocazione. Non mi resta altro che deplorare, comunque, ciò che non ho causato e che non posso evitare.



Tra i Link tre racconti di Sorrentino tradotti in italiano.


(04/05/2007)