LE PAROLE. AUTOBIOGRAFIA DI JEAN PAUL SARTRE
JEAN-PAUL SARTRE

Nel 1964 esce il romanzo autobiografico di Jean-Paul Sartre, Le parole. e lo stesso Sartre rinuncia al Premio Nobel per la letteratura. In questo romanzo l’autore rievoca l’infanzia alla luce della maturità, il periodo cruciale per la formazione del filosofo adulto che poi si troverà come padre della corrente esistenzialista. Jean-Paul Sartre, era un uomo schivo, che comunicherà solo con la moglie Simone de Beauvoir e che vivrà ogni attimo concependolo come assoluto ed irripetibile: “Ho sempre preferito accusare me piuttosto che l’universo; non per bonomia: per dipendere solo da me”.

di Azzurra De Paola
Raccontare il passato, riesumarlo dalla coltre di polvere e dimenticanza e falsi ricordi in cui spesso si perde e analizzarlo, sezionarlo, comprenderlo alla luce del futuro, di ciò che poi si è verificato.

Un lavoro di lima sulla persona adulta di Jean-Paul Sarte che guarda a se stesso come il bambino nascosto tra i libri del nonno e tutte le contraddizioni dell’infanzia, combattuto tra la voglia di essere e quella di non essere; fino all’autentica comprensione esistenzialista della realtà come incrostazione, come peso incancellabile e responsabilità del singolo.

Egli ricorda, probabilmente in maniera filosofica, l’età dell’oro dell’infanzia in cui si formano consapevolezze – allora inconsapevoli – della persona che poi si diventerà. “Non smetto di creare me stesso”.

Un bambino, forse, non lo sa.

Ma quello che conta, sottolinea Sartre, è che al dunque sia effettivamente così. Un work in progress, un mondo da scoprire e da cui essere scoperti: il bambino che si compiace della propria esistenza e non ne vede i limiti, il bambino che sa stupirsi, che sa guardare oltre e sotto le etichette.

C’è sempre un marchio con cui gli adulti amano contraddistinguersi e il piccolo Jean-Paul, figlio della borghesia francese, avverte con chiarezza i limiti del proprio ceto sociale e, con occhi di bambino, li vede attaccati ad ideali che sono riflesso di un passato che non gli appartiene:

Questi borghesi modesti e fieri considerano la bellezza al di sopra dei loro mezzi o al di sotto del loro stato sociale”. E, appartenente ad una classe sociale di cui talvolta si compiace (scrive che niente lo divertiva di più che giocare a fare il bravo bambino), egli si isolava dal banale cimitero della propria classe sociale e rimaneva nella follia dei libri a cercare la vita, quella che Heidegger avrebbe definito autentica: e nei libri egli scopriva pensieri inquieti e inumani “…le cui pompe e le cui tenebre erano oltre le mie capacità di comprendere”; i personaggi prendevano vita davanti ad i suoi occhi, in un mondo dentro il mondo, il mondo della letteratura.

Si definisce un bambino immaginario che si difendeva dalla vita con l’immaginazione e, riguardando all’età tra i sei ed i nove anni, si sorprende – ormai da uomo – dei suoi continui esercizi spirituali.

Amava l’inquietudine della pioggia e la passione per il cinema, amato perversamente per quello che in esso ancora mancava: “assistevo ai deliri di una parete; erano riusciti a liberare i solidi da quel senso di massiccio che mi ingombrava perfino nel corpo e il mio giovane idealismo si compiaceva di questa infinita contrazione”.

Si incantava a vedere l’invisibile, l’incurabile mutismo dei suoi eroi sullo schermo e la musica, unico mezzo di comunicazione sonora, era il rumore della vita interiore dei personaggi, il pianoforte imponeva il suo ritmo. E fu lo slancio cinematografico, l’ispirazione muta, a fare di lui un letterato, “deliziosamente noioso”; un letterato in erba che approfittava delle malattie, delle vacanze scolastiche, della ricreazione e della domenica per portare avanti con assiduità i propri testi, semiclandestini: proiettava nei propri eroi se stesso, disegnando in loro i propri sogni epici.

Racconta Sartre, uomo immaginario ma presente in ogni piega della realtà circostante, che a quell’epoca, in mancanza di nemici visibili, la borghesia aveva piacere a spaventarsi della propria ombra barattando la propria noia con un’inquietudine programmata. E poi, la guerra: una guerra vista con gli occhi di un bambino che se ne disamora presto perché sconvolse poco il suo mondo e perché rovinava le sue letterature, finché smise di scrivere e si chiuse nel proprio riserbo; a quattordici anni rispondeva, abbandonati ormai i sogni di gloria, che da grande avrebbe fatto lo scrittore, si limitava ormai a descrivere il mondo intorno – dimenticandosi congiuntamente della guerra.


(21/09/2006)