L’ENFER. L'ULTIMO KIESLOWSKI DIRETTO DA TANOVIC
TITOLO ORIGINALE: L’enfer REGIA: Danis Tanovic CON: Emmanuelle Béart, Jacques Gamblin, Karin Vard, Marie Gillain, Carole Bouquet, Jean Rochefort, Jacques Perrin FRANCIA/ITALIA/BELGIO/GIAPPONE 2006 DURATA: 98 minuti GENERE: sentimentale, drammatico

Il film per Lorenzo Corvino: VOTO 5

Storia di tre sorelle e del loro passato. Tre vite di donne molto differenti fra loro che vivono a modo proprio un misterioso trauma dell’infanzia – forse l’unica cosa che hanno veramente in comune –: quell’evento di molti anni prima le ha segnate per sempre. Al punto che nonostante siano sorelle, non solo non si frequentano, ma sembrano differire in tutto, non avere nulla in comune.

Ciò le porta ad assumere condotte diverse nei confronti degli eventi drammatici che ad un certo punto della loro esistenza si trovano a dover affrontare: Anne, studentessa universitaria, viene respinta dall’uomo che ama, un anziano e canuto professore sposato, padre della sua migliore amica; Cèline, la sorella maggiore, sola ed introversa, crede che un incontro fortuito con un giovane possa trasformarsi nell’amore della sua vita; Sophie non sopporta i tradimenti del marito e la gelosia la porta all’esaurimento nervoso.

Nell’epoca moderna in cui gli uomini hanno perso la fede nel divino non può esserci tragedia ma solo dramma. È questo l’assunto che viene esplicitato durante il film.

Prima di parlare del film, se vale la pena vederlo o meno e perché, occorre fare una breve premessa il cui contesto di pertinenza esula da una recensione e rientra piuttosto nell’esposizione saggistica o di analisi del film: la sceneggiatura del film appartiene alla trilogia scritta da Krzysztof Kieslowski (autore de il Decalogo e di Tre Colori) con Krzysztof Piesiewicz intitolata appunto Inferno, Purgatorio e Paradiso; tre trattamenti per altrettanti tre film che il regista polacco, scomparso nel 1996, non ha potuto realizzare di persona. Nel 2002 era stata già realizzata la terza delle tre sceneggiature del progetto, Heaven, con la regia del tedesco Tom Tykwer, quello di Lola corre per intenderci.

In questo caso, come in quello del 2002, e chissà anche nell’eventuale Purgatorio di una prossima stagione cinematografica, ci si trova di fronte ad una valutazione dislessica del prodotto, dato che i meriti/demeriti del film non sono facilmente attribuibili, rendendo il film finito inclassificabile: innanzitutto il regista non ha messo mano alla sceneggiatura del maestro polacco, non almeno ufficialmente; a ciò si aggiunge il fatto che questo trattamento è stato realizzato non dal suo fautore, bensì da un altro regista, soltanto a causa della scomparsa del primo, e non perché Kieslowski lo avesse di proposito affidato a Tanovic. Infine, ma non per questo meno importante, il regista è soltanto alla sua seconda opera, che nulla ha a che vedere, per temi, stile e impostazione estetica con il primo film, No Man’s Land del 2001, e pertanto non si può neppure dire che la scelta di affidare a questo regista bosniaco il progetto sia stata non casuale, ma frutto di una linea autoriale precisa, che vedeva nel regista premiato con l’Oscar per il miglior film straniero del 2001 un erede diretto della poetica del maestro polacco.

Insomma tutto questo legittima la diffidenza di chi vede nel film una mancanza di sincerità e di profonda convinzione in ciò che è stato fatto; proprio perché stiamo parlando di storie e temi e poetiche fortemente personali e inevitabilmente legati all’interpretazione personale, e non di film a puro scopo commerciale, improntati esclusivamente su intrecci frivoli o di intrattenimento leggero, per i quali un continuo passamano – quale c’è stato per L’enfer, prima che se lo aggiudicasse Tanovic – non inficerebbe la resa finale.

Ciò detto il film ha uno squilibrio di ritmo nell’esposizione degli eventi e nella descrizione dei personaggi: ossia nel primo terzo si indugia troppo sul mistero che ruota intorno ai tre ritratti femminili, tanto che passano svariati minuti prima di avere un dialogo che aiuti lo spettatore ad entrare definitivamente nella vicenda. Quindi tutta la parte centrale è troppo ripetitiva nel chiarire quale dramma personale ciascuna delle protagoniste sta vivendo; e solo nell’ultima mezzora il film acquista una forza narrativa e un’accelerazione degli eventi tale da intrigare veramente lo spettatore. Effettivamente l’ultimo terzo è veramente affascinante, evoca sensazioni e umori dell’animo umano che finalmente completano con tutta una gamma di chiaroscuri i corpi e le bellezze delle tre donne.

Non è un caso se proprio verso la fine compare l’esplicito rimando alla tragedia di Medea, proprio perché tutto il film finalmente trova la sua dimensione drammatica ed epica a fronte di una prima ora troppo sbilanciata sul versante sentimentale. Tanto che addirittura assistiamo a scambi di battute toppo stereotipati e troppo schematici e a soluzioni di sviluppo narrativo fin troppo improbabili in un cinema contemporaneo così attento ai dettagli della plausibilità, sopratutto nel registrare gli incontri sociali e nel fissare i rapporti interpersonali. In questo forse la sceneggiatura di Kieslowski paga il dazio dell’epoca in cui è stata scritta – sempre se tali demeriti di ingenuità non siano attribuibili a chi ha diretto il film; dopotutto non sappiamo in che percentuale costui è stato fedele alla sceneggiatura originale –.


Il film per Giancarlo Simone Destrero. VOTO 7,5

Tre donne ed il destino. O più semplicemente tre momenti diversi dell’umana dinamica dell’innamoramento. Tre punti di vista: colei che viene tradita, colei che fa tradire, colei che, momentaneamente sola, sta per cominciare uno di questi rapporti incrociando qualche altra esistenza umana. Una sola costante: la sofferenza, le pene d’amore, l’inconciliabilità dei punti di vista degli amanti. Dopo l’ottimo esordio con il sorprendente No man’s land, il regista bosniaco Danis Tanovic cambia totalmente registro arrivando alla messa in scena di questo melodramma intimista, seppur non minimalista, tratto da una sceneggiatura di Krzysztof Kieslowski, con ritmi e colpo di scena da thriller psicologico.


La regia è, allo stesso tempo, ricca e sobria. Riesce ad essere funzionale alle tre storie parallele, che si alternano costantemente, ed è sempre sapientemente dosata nei movimenti di macchina, anche in quelli più spettacolari che mettono sotto scacco le protagoniste al cospetto del loro gioco esistenziale. La fotografia, calda e cupa, presagisce il tragico segreto che sarà svelato e che, in gran parte, è la causa dei tormentati tratti psicologici delle tre donne.

L’inferno, secondo il regista, è su questa terra. E la diabolicità della vita può avere inizio anche, e soprattutto nel film, nel contesto apparentemente più rassicurante: quello familiare. Le problematiche delle sorelle, seppur diverse l’una dall’altra, possono essere ricondotte tutte al rapporto con i loro genitori. Celine è sola, e sembra essere una donna che non riesce a stabilire un legame per problemi di timidezza e d’eccessiva riservatezza, non appena incontrerà un uomo, che crede essere innamorato di lei, paleserà tutta la sua aberrazione relazionale con l’altro sesso.

Anne s’innamora di un uomo più anziano di lei, e sembra alla costante ricerca di una figura paterna che possa sopperire all’assenza interiore che la logora. Sophie, all’apice dei suoi problemi matrimoniali, avrà la sensazione di rivivere, in un attimo, quella situazione domestica che l’ha segnata per tutta la vita, invertendo i ruoli e ritrovandosi, adesso, genitore, guarderà i suoi bambini vedendo se stessa in una sorta di eterno ritorno dell’uguale familiare.

Il prologo di L’enfer, è un ottimo esempio registico di come si possa alludere all’antefatto da cui muoverà l’opera sposando il punto di vista della piccola Celine, che rappresenta quello di noi spettatori ancora all’oscuro dell’intera vicenda, la quale, accompagnata dalla madre, si trova davanti a qualcosa che non dovrebbe vedere e subito si ritrova gli occhi coperti dalla mano materna, conseguentemente una dissolvenza sul nero rende noi spettatori, come la protagonista, angosciati ma inconsapevoli di quel che sta realmente accadendo.

Nel complesso un bel film, anche se il nodo fondamentale, il senso di quello che è raccontato, e che avrebbe potuto farne un capolavoro, non viene sciolto. Il regista dice di essere anticattolico, nel senso di non credere ad un inferno e ad un paradiso ultraterreno, ma si allontana anche da qualunque professione di ateismo; infatti, il rimpianto per un mondo arcaico, politeistico, tragico, viene fuori da alcuni dialoghi, basta ascoltare la lezione del professore, di cui Anne s’innamora, contro il razionalismo e l’esame della stessa Anne, sulla tragedia di Medea, contro la modernità che ha dimenticato il divino. Tutto questo non viene affrontato visivamente, rimane solamente detto a parole, ed il film pur se buono come intreccio, si ferma alla risoluzione della vicenda narrativa, senza fare il salto di qualità artistico.


(14/06/2006)