L'IDENTITA'. ALLA SCOPERTA DI QUELLO CHE NON C'è
MILAN KUNDERA

E’ sempre così: dall’istante in cui la rivede all’istante in cui la riconosce come colei che ama, Jean-Marc ci mette il suo tempo. Quando si erano incontrati per la prima volta, in montagna, aveva avuto la fortuna di rimanere quasi subito da solo con lei. Ma se, prima di quell’incontro a tu per tu, l’avesse frequentata a lungo in compagnia di altri (...) avrebbe riconosciuto in lei l’essere amato? Se avesse saputo di lei solo il volto che mostra ai colleghi (...) quel volto lo avrebbe colpito e conquistato? Sono domande a cui non trova risposta.

di Daniel Tarozzi
Che cos’è l’identità? Chi siamo noi? Abbiamo tutti una doppia faccia? Esiste un io sociale, che mostriamo in pubblico, ed un io “intimo” che mostriamo nel privato? E qual è quello vero? Possiamo dire di conoscere veramente qualcuno? E ancora, come fare a distinguere la realtà dal sogno?

Tutte queste tematiche sono affrontate da Kundera, in quel suo breve romanzo intitolato L’identità. Divorando le pagine, seguiamo le avventure e le sventure dei due protagonisti, Chantal e Jean-Marc, attraverso le loro azioni e i loro dialoghi, ma soprattutto attraverso i loro pensieri, i loro sogni, i loro incubi. La narrazione, ancora una volta magistrale, alterna i punti di vista, spesso senza prendere posizione, senza mostrarci quale sia quello reale.

Fin dalle prime pagine, ci viene mostrata la facilità con la quale le nostre certezze posino su basi fragili: Jean-Marc vede la donna amata. Il suo cuore sobbalza. La insegue, la cerca, si commuove nel riconoscerla da lontano, finalmente la raggiunge... Non è lei. Si è sbagliato...

Molti di noi preferiranno non ammetterlo, ma a chi non è successo di scambiare la persona amata con qualcuno che non gli somiglia nemmeno lontanamente? E com’è possibile un simile errore, quando saremmo pronti a giurare di “riconoscere l’altro anche fra un milione”?

Ma non è solo l’identità fisica a essere labile, sfuggente, discutibile. Jean-Marc è ossessionato dal timore di non riconoscere più in Chantal la donna amata. Di trovarsi improvvisamente ad osservare un’estranea.

Ma lo svolgimento dei fatti sembra dimostrare che la persona amata è un’estranea prima di tutto per se stessa. L’intero romanzo ci mostra come i due protagonisti entrino in un vortice di incomprensioni che li porta ad allontanarsi sempre di più, in un crescendo di negazione di se stessi (o del se stesso conosciuto fino ad allora), prima che dell’altro.

Oltre alla propria identità, col passare delle pagine, vengono messe in discussione anche le scelte passate dei protagonisti. Un misterioso ammiratore di Chantal, ad un certo punto, le scrive: “l’eco dei tuoi passi sul marciapiede mi fa pensare a tutte le strade che non ho percorso, e che si ramificano come le fronde di un albero. (...) Proprio come un albero immaginavo la vita che mi si apriva davanti. Lo chiamavo, a quell’epoca, l’albero delle possibilità”. Presto, continua l’anonimo, queste sono scomparse, sostituite da “una strada segnata una volta per tutte”. E la nostalgia per il passato è diventata insopportabile.

E’ giusto, allora, scegliere di seguire una via o sarebbe meglio aprirsi agli infiniti rami, navigando per il mondo “come un profumo di rosa che si diffonde ovunque irresistibile” attraversando gli uomini e abbracciando così la terra intera?

Tutti dubbi che rendono fragile l’essere umano. Un essere talmente fragile e imperfetto, secondo Kundera, da essere costretto a sbattere le palpebre... Se l’occhio fosse un mezzo perfetto, espressione di un essere perfetto, infatti, non avrebbe bisogno di essere continuamente lubrificato. Invece, siamo continuamente costretti a questo flebile gesto che ci nasconde la realtà in un battito di ciglia. Cosa succede in quei brevi istanti? Tutto potrebbe scomparire!


Il corpo viene quindi visto da Kundera con repulsione, ma anche con infinita tenerezza e amore.

La fisicità, infatti, viene espressa in tutta la sua corporea vulnerabilità
. Chantal ha le vampate dovute all’età (anche se ciò non viene mai affermato esplicitamente), e ciò innesta in lei una crisi; teme di invecchiare, cerca gli sguardi perduti. Ma allo stesso tempo, riscopre antichi bisogni, risveglia passioni sopite, torna ad arrossire come non faceva da molti anni.

A differenza de “L’insostenibile leggerezza dell’essere”, comunque, in questo romanzo l’autore non afferma una chiara visione del mondo, piuttosto la mette in discussione. Più che risposte propone domande, pone dubbi. Interviene poco in prima persona, limitandosi a seguire con sgomento e stupore quanto accade ai personaggi, accompagnando il lettore, senza mai guidarlo apertamente. Fino all’ultima pagina, Kundera ci pone domande, quasi cercasse anche lui la soluzione dai suoi personaggi (o forse dai suoi lettori).

Accanto alla tematica dell’identità, troviamo quella delle incomprensioni, della difficoltà di comunicazione che spesso si viene a creare tra un uomo e una donna. Ci viene mostrato come, talvolta inesorabilmente, le buone intenzioni si trasformino in gesti che allontanano l’uno dall’altra; come ogni gesto possa essere frainteso dal compagno/a in un circolo vizioso che rischia di non avere fine, se non in uno sguardo ritrovato o in un addio.

Nelle 176 pagine “scritte grosse” dell’Edizione Adelphi di questo romanzo, Kundera trova anche il tempo di affrontare il tema dell’amicizia, della sua crisi nella società moderna, della solitudine dell’Uomo e del suo bisogno dell’altro, nonché della crisi di senso che accompagna la vita nel benessere. Ma qui l’analisi rischierebbe di prolungarsi oltremodo arrivando a superare in lunghezza la narrazione che, con magistrale sintesi, racchiude in sé molteplici significati, sfumature ed emozioni garantendo una piacevole, arricchente, lettura.


(23/11/2007)