STANISLAVSKIJ: LA RIVOLUZIONE DELLA MUSICA
Che senso ha la musica in teatro? È solo un gradevole sottofondo o piuttosto un reticolo interno all’attore-uomo che vive lo spazio e il tempo dell’arte scenica, la partitura non scritta che conferisce all’azione logica e coerenza, al sentimento autenticità? A scoprirlo è Stanislavskij, uno tra i più noti maestri della Grande Riforma nel teatro contemporaneo.
di Claudia Bruno
“Beati i musicisti, i cantanti o i ballerini: essi hanno il metronomo, il direttore e il coreografo! Per noi non è così, noi non abbiamo né leggi, né note, né partiture stampate, né direttore d'orchestra.”
A dirlo è Torzov, immaginario personaggio del libro di Stanislavskij Il lavoro dell’attore su sé stesso.

Noto a molti, anche solo per sentito dire, il metodo Stanislavskij, è famoso in occidente grazie ai giri assurdi di una vicenda editoriale complessa. Fu una casa editrice americana a gestire il tutto, con non poche modifiche e selezioni riguardo ai contenuti.
Il problema di Stanislavskij è privilegiare la credibilità del processo scenico, piuttosto che la leggibilità del segno; risultare credibili. In questo, il concetto di reviviscenza era stato centrale, e ancora è riportato da noi come l’unico degno di nota. Ma ci sono segreti che le edizioni originali russe custodiscono gelosamente, senza mai aver visto la luce di una traduzione ufficiale.
La musica in Stanislavskij è uno di questi.

Il contesto all’interno del quale il lavoro di Stanislavskij si inserisce è quello che la storia del teatro chiama la Grande Riforma, coincidente con la nascita della regia. Siamo nella Russia dei primi del novecento. Oltre alla rivoluzione d’ottobre, molte altre ne accadranno sotto i veli indifferenti del regime sovietico, e saranno rivoluzioni piene di fermenti artistici. Una di queste è la rivoluzione della musica, che per il sistema tracciato dal maestro in quegli anni rappresenta una vera e propria svolta concettuale. Una scoperta di rilevanza tecnica assolutamente non trascurabile per l’accesso all’arte scenica.

Reduce come attore dal fiasco dello spettacolo puskiniano Mozart e Salieri, andato in scena nel 1915, Stanislavskij capisce che quella stonatura tra sentimento rivissuto ed espressione fisica, verbale o motoria che sia, dipende da qualcosa di molto forte. È un vuoto che va colmato. E per farlo c’è bisogno di una rivoluzione strutturale più che formale, nelle sue teorie sul lavoro dell’attore su sé stesso.

Se nella fase iniziale della sua ricerca Stanislavskij pone le fondamenta del sistema evidenziando un percorso che parte dall’interno - la capacità dell’attore di rivivere gli eventi, di risultare credibile attraverso la reviviscenza - con Mozart e Salieri si rende conto che tutto questo non basta. Ci vuole qualcos’altro. Qualcosa che risolva quell’incolmabile stonatura. Qualcosa di cui l’attore non dispone in partenza. È la musica. Musica di azione e sentimento. Di parole e movimenti. L’attore deve supplire all’assenza di una musica dall’esterno, di una partitura già data che lo guidi verso la sua verità. Cosa che invece accade per cantanti, ballerini o attori d’opera.

Con la rivoluzione della musica, il primato interiore del sentimento viene ridimensionato dal concetto di tempo-ritmo giusto. È il corpo che vive, a indurre l’anima a credere. È il corpo il primo garante di logica e coerenza dell’azione. Il tempo-ritmo diventa la via diretta alla reviviscenza. Una via fisica prima ancora che interiore. Lavorando con cantanti d’opera nello Studio operistico al Bol'soj, Stanislavskij comprende appieno il significato di tempo-ritmo.

È attorno a questo concetto che ruota la rivoluzione della musica. Stanislawskij capisce che in scena tutto parte dal tempo. Fissato il tempo di un’azione, come per una battuta musicale si fissa la misura, il ritmo poi deriva da “singoli momenti di diversa lunghezza, che dividono il tempo in diverse e differenti parti”. Significa che ogni azione nella sua interezza può essere suddivisa e scomposta in piccole azioni ausiliarie, che nel loro interagire costituiscono un vero e proprio diagramma ritmico.


Per cantanti e danzatori esiste uno strumento adibito a tutto ciò: il metronomo. All’attore manca. E se ce l’avesse non basterebbe comunque. Il tempo-ritmo dell’attore infatti non può ridursi a un qualcosa che deriva esclusivamente dall’esterno. Tempo-ritmo esterno e tempo-ritmo interno nell’attore devono autostimolarsi. La segmentazione ritmica dell’azione, stimola una riviviscenza di sentimenti autentici. E viceversa.

Gli esercizi per sentire il tempo-ritmo possono essere i più vari. Per esempio lasciarsi contagiare psico-fisicamente da un’orchestrazione ritmica di più metronomi con velocità diverse. Oppure improvvisare il comportamento di un viaggiatore che attende il segnale di partenza del treno, secondo i tempi-ritmi delle diverse fasi d’azione. Ma sicuramente la prova più difficile sarà il recitare senza niente. Per contare banconote senza averle realmente tra le dita, insomma, ci sarà bisogno di musica! Di un tempo-ritmo esterno e di uno interno che si richiamino a vicenda in un quasi eterno ritorno, mai uguale a sé stesso, che non porti via l’attore da dov’è il suo personaggio ora, in questo momento. Che gli faccia contare quelle banconote come se esistessero tra le sue dita, ruvide, una diversa dall’altra, una scolorita e una piegata male, ognuna con il giusto grado di attenzione che richiede. Questo è il tempo ritmo-giusto.

È il tempo-ritmo giusto che conferisce logica e coerenza all’azione. Autenticità al sentimento. Credibilità all’attore che ora non è più un professionista competitivo sul mercato, ma uomo in scena. Fugge dall’imitazione che uccide l’arte e crea, con tutto il dispendio energetico che il processo creativo comporta. Ogni replica non sarà più imitazione della precedente. Ma nuova creazione. Ogni volta sarà una musica diversa, fuori e dentro.

E se la musica della parola è poesia, e quella del movimento è danza, l’attore deve servirsi di entrambe. Mettere in metrica la sua creazione, volta per volta, a seconda delle circostanze date e non una volta per tutte. Questo nel parlato si traduce nel ta-ta-ti-ra. Come nel canto pause e accompagnamento riempiono gli spazi lasciati vuoti dalla melodia, così nel parlato, il ta-ta-ti-ra subentra ritmicamente tra le parole di senso compiuto, mettendo in evidenza la musicalità del discorso. Così anche nel movimento, ogni passo è il piccolo tassello di un mosaico dove niente è a caso, tutto contribuisce all’articolazione di una danza.

Così, solo grazie alla musica l’attore ha una partitura, una fune su cui tenersi in equilibrio. È solo questa fune che lo tiene indissolubilmente legato alla realtà che lo circonda, al suo personaggio prima ancora della parte che il testo ha già confezionato. Come l’acrobata, non può permettersi di perdere la concentrazione, il rischio sarebbe troppo alto. Si romperebbe la fune, il legame di credibilità con lo spettatore si spezzerebbe nel vuoto senza rimedio.

È in questo senso, che la musica permette all’attore di diventare, senza imitare. Di vivere il presente privilegiando il processo dell’azione, piuttosto che la sua conclusione. Di essere uomo prima che attore, artista più che burattino. Eccolo, allora, l’attore di Stanislavskij: un attore-musico che tatatirova in bilico tra arte e vita, sul precario equilibrio di una fune chiamata musica.



Per saperne di più:

Si consiglia la lettura del testo di Franco Ruffini “Stanislavskij. Dal lavoro sull’attore al lavoro su di sé” pubblicato da Laterza, nella versione aggiornata 2005.


(27/01/2006)