IL VINO NELL'ANTICA ETRURIA
LE ORIGINI DEL CHIANTI

Continua il nostro viaggio nella storia attraverso le abitudini alimentari. Scopriamo allora le anriche origini del Chianti...
di Francesco Lemmi
La colonizzazione greca della penisola italica portò, insieme ai fermenti artistici e culturali provenienti dal mondo ellenico, allo sviluppo della coltivazione della vite su tutto il territorio, dalla Sicilia e della Magna Grecia fino a nord, al Lazio, alla Toscana e infine alle distese della Pianura Padana orientale, allora chiamata Rezia.

Tra i popoli che sfruttarono queste conoscenze furono gli etruschi, i quali trovarono in Toscana, più precisamente nella regione del Chianti, alcuni semi di piante selvatiche e la impiantarono lungo il litorale tirrenico dove sorgevano le loro città più importanti. Secondo altri studiosi, invece, la vite sarebbe già stata presente in questa regione in una fase ancora antecedente i primi insediamenti umani in Italia. Una terza ipotesi si basa sulla ricchezza di scambi commerciali tra gli etruschi e il mondo orientale-egeo, per cui gli italici avrebbero iniziato a coltivare la vite dopo aver importato il vino.

Infine, un’ultima ipotesi farebbe risalire il vino dai navigatori fenici in arrivo sulla penisola a bordo delle loro imbarcazioni con le quali passavano da una sponda all’altra del Mediterraneo. Quale che fosse la sua origine, gli etruschi bevevano il vino all’interno di patere, particolari coppe di forma ovoidale e dotate di due manici laterali per portare in bocca il “nettare degli dei”. Il consumo del vino era legato sia alla vita quotidiana, come per esempio ai banchetti comunitari, sia ai riti religiosi nei confronti delle divinità oppure per il culto dei morti.

Il mondo etrusco-italico aveva anche una divinità legata al vino, ovvero Fufluns, che successivamente i romani chiameranno Bacco. Come nel mondo greco, anche per gli etruschi l’assunzione del vino permetteva di entrare in diretto contatto con la divinità per mezzo dello stato di ebbrezza raggiunto. Costituisce un unicum nel mondo classico il fatto che presso gli etruschi le donne avevano un proprio ruolo preciso nel banchetto, sia servendo le coppe e il vino agli uomini sia partecipando esse stesse al convivio stando adagiate sulle klinai accanto agli uomini.

Questa presenza femminile durante il banchetto è testimoniata dagli affreschi rinvenuti all’interno delle tombe, e sui vasi di bucchero, la più tipica produzione ceramica etrusca. Durante il banchetto si svolgeva anche un gioco molto particolare, il kottabos, che consisteva nel lancio di una modica quantità di vino da una coppa all’altra tra i diversi partecipanti al banchetto oppure all’interno di un piatto tenuto in equilibrio alla sommità di una asta e posto a circa due metri di altezza dal terreno; in entrambi i casi si trattava di un gioco che richiedevano una particolare destrezza e che quindi si rivelava sempre più difficile a mano a mano che i partecipanti proseguivano a bere!


Già allora il vino era accompagnato da cibi particolari che ne sapessero esaltare il sapore e il profumo: tra questi era il kykeion, una mistura di miele, orzo e formaggio grattugiato che secondo la mitologia greca era bevuto dagli eroi omerici durante le guerra di Troia. Tra i corredi tombali rinvenuti è infatti anche una piccola grattugia bronzea molto probabilmente utilizzata a questo scopo.

Oltre a ciò, il vino era anche utilizzato per marinare la carne, che infatti era lasciata immersa nel nettare per molte ore prima di essere consumata. Le aree maggiormente utilizzate per la coltivazione della vite erano, secondo quanto ci riferisce nei suoi scritti Plinio, quelle attorno a Populonia, a Gravisca, l’antico porto di Tarquinia, e a Statonia, presso Vulci.

Sempre grazie a Plinio siamo anche a conoscenza dei diversi vitigni utilizzati per produrre le varie tipologie di vino: si trattava dell’Etesiaca, una qualità molto precoce e generosa nella quantità di vino prodotto, la Talpone, un’uva nera che dava un mosto chiaro, l’Alpiane, dalla quale si ricavava un vino molto dolce e ad alta gradazione utilizzato per la produzione del passito, la Sopina, che era coltivata con i tralci rovesciati verso l’alto, e la Conseminia, dalla quale si ricavava un’uva molto tardiva a bacca nera e adatta per un uso quotidiano.

Al termine della vendemmia si consumava immediatamente il primo mosto, mentre il rimanente era conservato all’interno di grandi recipienti le cui pareti interne erano rivestite con pece e con resina e quindi lasciato riposare per un certo periodo di tempo al termine del quale il vino era filtrato e versato all’interno delle anfore da trasporto. Prima di essere consumato, il vino era mescolato nei crateri con l’aggiunta di acqua e miele in modo da perdere parte dell’eccessiva gradazione e in modo da risultare maggiormente piacevole al palato (pare addirittura che in questo modo riuscissero a ottenere un vino simile al nostro moscato).

Durante alcuni banchetti al vino erano anche aggiunte alcune droghe, in modo da raggiungere in modo più veloce lo stato di ebbrezza. Verso il mondo esterno, il vino era scambiato in tutto il bacino del Mediterraneo e in questo modo giungevano in Etruria schiavi e metalli preziosi; in particolare, fu il territorio di Vulci a specializzarsi nella produzione di anfore vinarie che erano vendute ai grandi proprietari di vigneti. Tra le principali destinazioni del vino etrusco erano i centri della Gallia mediterranea, dove si svilupparono centri di produzione autoctoni.


(15/08/2007)