PASSAGGIO A ISTANBUL
Contraddizioni, scambi, antiche ambizioni e nuove mescolanze culturali. Istanbul entra dentro come un non luogo, una città invisibile. Cronaca di un viaggio nella metropoli eurasiatica.
di Claudia Bruno
Le donne, a Istanbul, vanno in giro in gruppo coperte dalla testa ai piedi, di nero.
Jeans e scarpe da ginnastica sotto l’abito lungo. Giusto una fessura lasciata stretta tra la fronte e il naso per vedere dove si va a finire. E’ agosto, e sbarcare a Istanbul da qualsiasi parte si provenga è un po’ un pugno nello stomaco vuoto del viaggiatore affamato.

Pomeriggio inoltrato, in Piazza Taksim il monumento alla Repubblica fondata da Ataturk nel 1923 è sempre lì, al centro. I rivoluzionari scolpiti nella pietra, freneticamente immobili, dall’alto guardano la piazza di soli uomini seduti. I baffi e lo sguardo perso nel giallo dei taxi fermi ai semafori, che fanno il conto alla rovescia per poter partire di nuovo.

Tredici milioni di abitanti e il mare in mezzo, questa è Istanbul.
Ragnatela di vertiginosi ponti a cavallo di due continenti.
Dove s’incontrano il Mar Nero e il Mar di Marmara, il Bosforo, la Istanbul asiatica guarda in faccia la sua sorella europea. Dove l’acqua s’insinua nella terraferma, il Corno d’Oro, la Istanbul europea vecchia e la nuova si dividono. Tre città in una, e chissà quante altre dietro l’angolo.

All’imbrunire Istiklal Caddesi, corso principale della zona europea nuova, sembra ancora più larga, un tripudio di insegne illuminate a colori. Mentre una folla inammissibile ci si riversa dentro, le osterie mettono in vetrina cuoche stanche di impastare farina per preparare gözleme, una piadina tipica cotta su una piastra bucherellata. Sembrano essere lì da secoli.
Carne tritata, peperoni piccanti, kebab, narghilè. Una mistura di odori dolciastri, a volte nauseanti, solletica i nasi delle etnie più diverse. E in lontananza un canto inaspettato, altalenante e instabile richiama i fedeli alla preghiera serale. E’ il muezzin. L’ altoparlante rimpiazza il tradizionale minareto.

Qui, la popolazione è quasi totalmente musulmana. Solo poche migliaia di fedeli cristiani ortodossi sono rimasti dopo il lungo sultanato dell’impero ottomano. Quasi mezzo secolo per ‘spazzare via’ duemila anni di cultura greca. Fa un po’ paura pensare di camminare sul suolo dell’antica Bisanzio che il navigatore greco Biasanthe costruì settecento anni prima di cristo inseguendo il senso dell’oracolo di Delfi. La stessa, che mille anni dopo Costantino avrebbe ribattezzato la ‘nuova Roma’ dell’impero romano. Centro della cristianità e della cultura bizantina fino all’invasione turca del 1453, Costantinopoli prese poi il nome di Istanbul per diventare ai nostri occhi una metropoli combattuta tra islam e occidente, dal retrogusto immancabilmente greco.

Le moschee sono uno degli aspetti visivamente più affascinanti della zona europea vecchia, insieme ai bazar. Dalla torre di Galata, costruita da genovesi medievali, se ne apprezza uno scorcio singolare. Attraversando il ponte di Galata, al di là del Corno d’Oro, i minareti sfiorano il cielo sotto il sole accecante di mezzogiorno. I lustrascarpe sono chinati a terra agli angoli delle strade.

Nel quartiere di Eminönü, dove c’è la moschea Yeni, gli odori non si immaginano prima, è luogo di porto e di mercati a sé stante. La nafta e la cannella si confondono tra i fiori e il caffè turco che popolano i vicoli adiacenti al bazar delle spezie, il secondo mercato coperto per grandezza dopo il gettonatissimo e turisticizzato Grand Bazar. Fuori, un arco di pietra porta la scritta ‘Misir Carsisi 1660’.


Il Misir Carsisi, tradotto dal turco ‘Mercato Egiziano’, è il cuore delle delizie di Istanbul, ci si potrebbe restare dentro per ore. Punto cruciale dell’antica Via della Seta, calpestata per secoli da navi e carovane dei più pedissequi mercanti, il bazar delle spezie era il ponte commerciale tra i due continenti, quello asiatico e quello europeo.

Oggi è ricco di prodotti raffinati. Una varietà infinita di spezie, caffè, tè, hennè, erbe, oli profumati, burro cacao, frutta secca, noci, pistacchi, miele, tabacco, castagne e quant’altro possa far gioire i sensi tutti in pochi secondi.
Turchia, Iran, Iraq, Siria e paesi adiacenti trovano sui banchi del Misir Carsisi una vetrina insostituibile, per la popolazione locale specialmente.

Fatta eccezione per qualche villaggio di pescatori sul Bosforo, la zona asiatica è quella più ricca e residenziale. Le case di legno portano appeso davanti l’occhio azzurro, simbolo scaramantico nazionale. Non lontano da qui, prima dell’instaurazione della Repubblica, nel palazzo estivo del sultano si consumavano storie tra harem e tappeti, concubine ed eunuchi,.

Contraddizioni e passaggi, ambizioni e scambi. Istanbul entra dentro come un non luogo, la città invisibile, tanto che risulta strano anche immaginare l’esistenza di una popolazione locale che nasce e muore qui da generazioni, giocando a dama e fumando narghilè. Le facce si confondono, i veli in testa anche, come le lingue e gli alfabeti. E se la lingua turca delle tribù altaiche esiste da millenni, gli alfabeti a Istanbul si sono dati il cambio insieme ai governanti. L’alfabeto arabo dei sultani, dopo aver spazzato via il greco ha lasciato il posto a quello latino il giorno della liberazione dagli oppressori.

Ora, questo universo simbolico riecheggia nel rosso del piccolo bicchiere a tulipano di tè turco. Da qui tutto si colora di una luce diversa. La Moschea Blu, Aghya Sophia, i bazar, le persone. E Istanbul sembra la riva di chissà quali approdi del passato, chissà quali trame del futuro. Dall’alto dell’aereo pare di vedere Piazza del Popolo gremita di persone, ma le persone sono case. Forse è solo una metropoli sovraffollata che non appartiene a nessuno, perché nessuno ha il coraggio di restarci più di qualche giorno, e adesso, dobbiamo andare anche noi.


(08/09/2005)