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Ma questo, più di ogni altra cosa, è un racconto sul valore dei libri: 451 gradi Fahrenheit è la temperatura di autocombustione della carta. Ed è ciò che succede a una civiltà che rifiuta i libri: si brucia da sé, si condanna. Rifiutando il pensiero, la memoria, il dibattito, preferisce l’insensibilità e l’inerzia. Pensare può far scaturire delle emozioni, di qualsiasi genere. E in quell’epoca non lo vuole nessuno. Non lo vuole il potere costituito, per paura di dover fronteggiare il dissenso, ma non lo vuole più neanche il popolo, ormai alienato. Pensare, mettere in discussione se stessi e la realtà può portare alla scoperta che c’è un errore da qualche parte: troppo doloroso, troppo faticoso. Meglio una vita protetta, confinata, e un tantino vegetale. Non importa che sia illusoria – prima di tutto con se stessi – tanto non ce ne si rende conto.

E’ questo il gioco: possiamo permetterci di non pensare perché tanto, siccome non pensiamo più, non ci accorgiamo di quanto è stupido e triste non pensare. E il rogo dei libri – cioè dei pensieri e delle emozioni – è eletto a sistema, arrivando in qualche modo a includere e concludere – del resto siamo in un futuro “semplicemente” immaginato – i roghi avvenuti nella storia, la cui matrice era sostanzialmente ideologica e calata dall’alto. Qui, ormai, praticamente nessuno si rende più conto di nulla.

“Bruciamo tutto, bruciamo ogni cosa! Il fuoco è luce e soprattutto è purificazione” diceva dunque il capitano dei pompieri. A chi è tentato di pensare che “tanto alla fine è fantascienza” bisognerà ricordare non solo i roghi di libri del nazismo, ma anche quelli in Bosnia dei primi anni novanta o quelli dei romanzi di Harry Potter messi in piedi da alcuni preti del Midwest americano.

Bradbury mette in scena la paura di tutto questo. E ci parla della fecondità, della vitalità e della bellezza delle contaminazioni. Fantasie e pensieri che stanno nei libri. Forse la lettura ideale che potrebbe seguire “Fahrenheit 451” sarebbe “Se una notte d’inverno un viaggiatore” di Italo Calvino. Soprattutto all’inizio. Quando ci invita ad accomodarci su una poltrona morbida – o su un pouf o un letto, dove vogliamo –, a distendere le gambe, o a metterci come ci pare, purché comodi. Poi a prendere il libro, rigirarlo un po’, annusarne l’odore delle pagine nuove, sfogliandolo con delicatezza. E infine, chiuso il mondo fuori per un po’, a immergerci.


(27/08/2007) - SCRIVI ALL'AUTORE


Amare l'arte è benessere

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