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PER UNA POLITICA DEGLI ALBERI. A CHI SERVONO LE FORESTE
Due recenti notizie rilanciano il dibattito sull’emergenza ambientale.

Stefano Zoja

Sì alle foreste, no alla riforestazione. Ma non è l’esito nonsense dell’intricato dibattito sull’emergenza climatica. Sono due messaggi distinti, ma convergenti e complementari, che provengono da studiosi che hanno a cuore il pianeta. Si possono trovare nello stesso numero di Internazionale, il 712, rispettivamente alle pagine 80 e 31. E testimoniano qualcosa di interessante sull’informazione e sulle abitudini collettive, anche in ambito ecologico.

Cominciamo dal no alla riforestazione. Morosini, analista socio-ambientale e collaboratore di Internazionale, risponde a una semplice domanda – Piantare nuovi alberi riduce l’effetto serra? – citando Oliver Rackman, uno storico dell’ambiente. Che dice: “piantare nuovi alberi per ‘neutralizzare’ l’anidride carbonica (CO2) è come bere più acqua per rallentare l’innalzamento dei mari”. E’ pressoché inutile. Piantare nuovi alberi è innanzitutto una misura temporanea: alla loro morte, quando si decomporranno o verranno tagliati e bruciati, molta della CO2, che si era fissata alla loro corteccia o nel sottosuolo, tornerà nuovamente nell’aria. Questo è il motivo principale per cui molte Ong e associazioni per la compensazione dell’anidride carbonica (come Myclimate) non sostengono progetti che includono la piantagione di nuovi alberi.

Non solo: spesso i criteri con cui si riforesta un’area sono superficiali o dannosi. E’ frequente che si utilizzino alberi a crescita rapida, inadatti al terreno in cui vengono piantati, che spesso sottraggono nutrimenti alla flora autoctona. E’ raro anche che si tenga conto delle esigenze di un determinato biotopo, magari ricorrendo a monoculture che riducono la biodiversità.

E c’è altro, come riportano siti d’informazione che hanno lo scopo di monitorare proprio le attività di compensazione della CO2 (come www.sinkswatch.org). Per esempio il caso ugandese della riforestazione ai confini del parco nazionale di Mount Elgon. Sembrava una storia ammirevole: alcune compagnie energetiche olandesi pagavano di tasca propria l’ampliamento di un parco in Africa per compensare le loro emissioni in Europa. Ma in una nazione già percorsa da conflitti etnici e dittatura, l’ampliamento del parco avveniva a spese di alcuni insediamenti di contadini. In questo caso la riforestazione sfrattava molte famiglie dalle loro abitazioni, minava ulteriormente gli equilibri politici ed etnici di un paese già lacerato e non garantiva nemmeno la riforestazione stessa, perché in quelle condizioni nessuno poteva assicurare che quegli alberi non sarebbero stati sradicati nuovamente qualche anno dopo.

Insomma, la riforestazione sembra una strategia molto meno virtuosa di quanto si dica in giro. Ma sempre Sinkswatch nella sua home page scrive chiara un’altra cosa: le foreste intatte garantiscono aria e acqua pulite. Sono strutturalmente complesse e consentono l’insediamento di comunità animali e vegetali biologicamente variegate, dalle quali gli abitanti delle foreste derivano gran parte dei loro mezzi di sostentamento”. La ricchezza della natura non è sostituibile con palliativi ecologicamente corretti, e qui c’è il collante con la seconda notizia.

Finora larga parte della comunità scientifica credeva che la differenza fra la CO2 emessa dalle nostre attività e quella circolante nell’aria fosse dovuta all’assorbimento delle foreste settentrionali del pianeta (oltre che degli oceani). Si pensava che le foreste tropicali non contribuissero e che anzi i processi di deforestazione in atto in quelle zone aumentassero i livelli di CO2. Eppure i calcoli non tornavano del tutto.


  
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