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Con tutto il rispetto e l’ammirazione per gli ex-sessantottini, cerco di rompere la barriera di pregiudizio e provincialismo che ci separa. Prendo malvolentieri il microfono e cerco di spiegare con un filo di voce che le cose non stanno proprio così.
Che siamo generazioni diverse per visioni del mondo prima ancora che per età. Che noi la rivoluzione la stiamo facendo sotto i loro occhi troppo assonnati e pigri per potersene accorgere. Che il nostro silenzio è apparente, che la nostra è una rivoluzione tecnologica e di coscienza. Ma è una rivoluzione, e politica anche. Perché la rivoluzione non si aspetta, ma al massimo si fa, e noi le nostre scelte le compiamo ogni giorno, individualmente e collettivamente, in luoghi che occhi analfabeti rispetto agli strumenti usati non possono vedere.

Cara “generazione precedente”,
i giovani ci sono. Eccome. E stanno facendo cose di cui non vi preoccupate perché le giudicate subdole prima ancora di conoscerle. I giovani stanno fuori dalla porta, dove li avete lasciati, perché hanno capito che il potere (cioè quello che possiamo fare) passa da altri corridoi oltre che dall’ingresso principale. E nonostante la consapevolezza di non poter porre direttamente rimedio ai grossi errori del passato, i giovani trovano ogni giorno lo spazio e il tempo per non sentirsi vittime di quella “cultura del complotto” di cui vi siete fatti portavoce: esistesse un solo giovane in preda alla rassegnazione, lo sarebbe perché lo avete persuaso che non può fare nient’altro che niente. Questa è una cultura del complotto: convincere i giovani dell’inevitabilità di un destino generazionale. Perché è così che li volete, i giovani. Perché è così che vi fa comodo averli. Perché i poteri che avete, non solo non volete condividerli, ma non siete più capaci di tramandarli attraverso i saperi.

Se è vero che la nostra generazione è quella “più sacrificata”, diciamo pure come è sacrificata, diciamo pure perché. Ci avete lasciato come eredità un vuoto culturale, spirituale ed etico, che oltre i vittimismi arrendevoli stiamo cercando lentamente e creativamente di colmare.

Noi siamo gli assistiti-inghiottiti dalla famiglia: lo Stato non ci rappresenta. Noi siamo i precari nel lavoro e nell’integrità mentale, quotidianamente spronati all’adattamento e all’inventiva: il gossip di partito non ci rappresenta. Noi siamo i de-costruttori intertestuali della realtà, gli utenti e non gli spettatori: la televisione di Stato, di partito e di mercato non ci rappresenta. Noi siamo quelli del Muro di Berlino e delle Torri che crollano: quest’Italietta immorale non ci rappresenta. Noi siamo da altre parti, ma ci siamo e facciamo.

Perciò, oltre le chiacchiere del pregiudizio spicciolo, diteci voi chi sono questi “giovani” di cui ci raccontate sempre, vittime commerciali assopite nel torpore delle loro coscienze dormienti e incapaci di lottare e credere.
I “giovani”?
Ma quali “giovani”?


(09/05/2007) - SCRIVI ALL'AUTORE


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