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L’Africa è forse il continente che ha segnato con più forza il lavoro di Kapuscinski. Un’etichetta geografica che racchiude territori e culture estremamente variegate. Dire Africa è un luogo comune fatto di bambini denutriti, organizzazioni umanitarie e guerriglia. Il giornalista polacco conosceva bene i rischi dei telegiornali e dell’informazione semplificata. Per lui non c’era l’Africa: c’era l’Etiopia del negus deposto Hailè Selassiè, raccontato dalle parole dei cortigiani, delle spie e dei camerieri che avevano frequentato il palazzo. E c’era l’Algeria subito dopo il colpo di stato contro Ben Bella, o il Sudafrica e i rivolgimenti dell’apartheid. Raccoglieva testimonianze dai potenti come dai contadini, perché la conoscenza è un mosaico. E questo valeva per l’Honduras, l’Unione Sovietica o l’Iran, indifferentemente.

Kapuscinski fotografava e scriveva poesie. Anche in questo l’estetica era un punto di arrivo appena volontario: ciò che contava era la conoscenza e il superamento dell’incomprensione. Contava, prima di tutto, la chiarezza della visione.

Il paradosso, il dramma e il pericolo stanno nel fatto che conosciamo sempre più la storia creata dai media e non quella vera. Perciò la nostra conoscenza della storia non si riferisce alla storia reale, ma a quella creata dai media. Io sono ben cosciente di tutto questo perché lavoro nel campo dell’informazione. Collaboro con troupe televisive e so come operano. Mi ricordo, per esempio, che a Mosca durante il colpo di stato del 1991, gli operatori televisivi, dopo qualche giorno, erano già stanchi: c’era un tempo orribile, pioveva, faceva freddo. Quando si verificava qualche avvenimento importante, le troupe si riunivano, si mettevano a bere vodka o qualcos’altro e concordavano di non raccontare niente. E se gli avvenimenti non venivano riportati dalla televisione, era come se non fossero mai successi. Questi bravi ragazzi decidevano se la storia avveniva o non avveniva.

Milano, 2000, presentazione di “Ebano” in Feltrinelli. Kapuscinski è già un monumento. Durante il dibattito conclusivo un ventenne alza la mano: “come si fa a diventare reporter di guerra?”. Lui risponde: “Il viaggio a scopo di reportage esclude qualsiasi curiosità turistica, esige un duro lavoro e una solida preparazione teorica, per esempio la conoscenza del terreno su cui ci si muove. È un modo di viaggiare senza un momento di relax, in continua concentrazione e raccoglimento. Dobbiamo essere consapevoli che il luogo nel quale siamo giunti ci viene concesso una sola volta nella vita, che probabilmente non ci torneremo mai più e che abbiamo solo un'ora per conoscerlo. In un'ora dobbiamo registrare l'atmosfera e la situazione, vedere ricordare, sentire più cose possibili. Il viaggio a scopo di reportage esige un surplus emotivo e molta passione”. E’ il ricordo di Andrea Nicastro sul Corriere il giorno seguente la morte del giornalista.

L’intelligenza e la curiosità erano il telaio del senso dell’umanità di Kapuscinski. E’ grazie a quest’ultimo che il giornalista polacco è diventato un riferimento e un simbolo. Un incrollabile viaggiatore, un uomo minuto e gentile, il cui semplice segreto è rimasto sconosciuto al giornalismo contemporaneo.



(testi tratti da: “Memorie di guerra”, articolo tratto da Internazionale n° 587 del 21 aprile 2005; “In viaggio con Erodoto”, Feltrinelli 2005; “Il cinico non è adatto a questo mestiere”, Edizioni e/o 2002)


(20/03/2007) - SCRIVI ALL'AUTORE


Amare l'arte è benessere

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