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Tempo 

 
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BREVE RIFLESSIONE SUL TEMPO FOTOGRAFICO
A tutti sarà capitato di sfogliare fotografie, in un giorno particolare o in uno come gli altri, in un album di famiglia o attraverso la luce di un proiettore, dopo averle cercate intenzionalmente o solo dopo averle scoperte per caso. A qualcuno sarà capitato di vederle, quelle foto, dietro o davanti l’obiettivo, nella loro essenza, nel loro “essere stato” che le rende autentiche senza bisogno di prove. E’ in quel momento che subentra la consapevolezza di un rapporto inscindibile tra fotografia e tempo.

Claudia Bruno

Cos’è il Tempo fotografico? La durata di esposizione della pellicola alla luce, il mettere in evidenza che tutto cambia, l’immortalare ogni singolo movimento, il rappresentare società diverse in epoche diverse?

La fotografia, quella che non si riesce solo a guardare, quella che si deve vedere, quella che ferisce tanto da non poterne più fare a meno, turbamento che continua ad occhi chiusi, immagine viva di una cosa morta, direbbe Barthes, che nel suo ultimo scritto “La camera chiara”, firma quasi un testamento, un lasciare la chiave, a noi che siamo rimasti qui, nella società malata, sottomessa all’immagine come immaginario generalizzato. Barthes ci parla di Tempo nella fotografia come un “moto propriamente revulsivo che inverte il corso della cosa: l’estasi fotografica”, per cui la fotografia diventa un medium bizzarro: “falsa a livello della percezione, vera a livello del tempo”, allucinazione più che illusione, perché immagine folle, sempre velata di reale, che se intrisa di realismo assoluto porta la lettera del Tempo, svincolandosi dalle convenzionali letture e sfiorando la pazzia.
“La vita/la Morte: il paradigma si riduce ad un semplice scatto: quello che separa la posa iniziale dal rettangolo di carta finale” dice ancora Barhtes “Con la fotografia entriamo nella morte piatta”.

Ma Tempo, per la fotografia, è anche quello che fa venir fuori le immagini sulla carta al momento dello sviluppo, come una rivelazione, in penombra, nell’indefinitezza dei reagenti, lo stesso che porterà lo sguardo, il sorriso di qualcuno in un’ epoca che non gli appartiene, a straziare qualcun’ altro che quello sguardo, quel sorriso, non li ha mai conosciuti. Tabucchi, in uno dei suoi primi romanzi , “Il filo dell’orizzonte”, ce ne parla piano, e con le parole adatte, racconta il sorprendente fenomeno chimico-fisico della stampa di fotografie:
“Nella vasca del reagente i contorni sembrava stentassero a delinearsi, come se un reale lontano e trascorso, irrevocabile, fosse riluttante ad essere resuscitato, si opponesse alla profanazione di occhi curiosi ed estranei, al risveglio di un contesto che non gli apparteneva. Stava evocando dei fantasmi, cercava di estorcere loro, con l’ignobile stratagemma della chimica, una complicità coatta, un equivoco compromesso che essi, ignari contraenti, sottoscrissero con un improvvisata posa consegnata ad un fotografo d’allora. Losca virtù delle istantanee! L’intimità di un istante irripetibile della loro vita ora è sua, dilatata nel tempo e sempre identica a se stessa; e visibile infinite volte appesa gocciolante ad uno spago che attraversa la cucina.”


  
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