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ELEUTHERA: ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO
SULL'ISOLA DELLE LIBERTA'

Cosa succede quando ci si ritrova, improvvisamente, su un isola delle Bahamas e senza cellulare?

Daniela Mazzoli

Si atterra dopo quaranta minuti di volo su una specie di pulmino del cielo. L’isola, una delle più sottili delle Bahamas, affaccia sull’oceano Atlantico e –con una distanza di appena tre chilometri- sul mare caraibico. Due mondi, due acque, due temperature, molti colori. Sull’isola non c’è quasi nulla: la capitale è un piccolo agglomerato di case, tre chiese di diversa religione, un paio di scuole (su una c’è scritto “qui comincia il mio futuro”), un negozio di artigianato per turisti e due pub in cui si beve birra locale e prima di mezzanotte si chiude. Buio, tutti a casa.

La gente del posto è tra le più pacifiche, ha raggiunto da appena trent’anni l’indipendenza dalla madre Gran Bretagna e ne gode i primi benefici. Quasi tutti sono obesi come americani ma vestiti con un gusto ‘english’, il che li rende personaggi romanzeschi e molto eccentrici.

Le ragazze hanno visi austeri, perfetti, con occhi e labbra molto grandi, nasi regolari, seni piccoli, sederi altissimi. Sono cordiali ma non espansivi, socievoli ma senza il gusto dell’esibizione: direi che hanno un certo orgoglio sociale e non si rendono ‘merce’ per gli stranieri. Sembrano poveri ma non lo sono. Lavorano pochissime ore al giorno con stipendi da manager: il fatto di essere gli unici a poter lavorare sul posto li rende –anche per i pochi tour operator e le molte aziende di costruzione in arrivo- indispensabili e insostituibili. Ho sentito dire di loro, da un siciliano, che sono persone buone ma irritanti, tanto sono pigre… C’è sempre qualcuno più a sud di noi!

Chiunque venga dal mondo ‘moderno’ prova immediatamente un senso di stupore, subito dopo un profondo disagio. Tutto questo deserto, questo niente da fare, questa solitudine reale, non interiore, lascia un po’ perplessi. Lontani dalle voci stridenti della strada, della città, di qualsiasi specie di villaggio: si arriva a pensare che non si sopravviverà su quei due chilometri di spiaggia (dei centosessanta totali) senza nemmeno l’uso di un telefono.

Infatti sull’isola i cellulari non funzionano. Sette giorni senza alcuno squillo, alcuna interruzione, senza nessuno che si infili nei pensieri mentre li stai facendo. Si ritorna all’improvviso in un passato non molto lontano –appena quindici anni fa- quando questo piccolo oggetto non era ancora così diffuso.

Sembra un secolo e invece si tratta di poco tempo. E la nostra vita, il nostro modo di avere relazioni, di fare amicizia, anche i nostri amori, hanno del tutto cambiato forma, velocità, sistema. Lentamente, un giorno dopo l’altro, ci si dimentica della sua utilità, ci si rende conto che gli affetti durano ugualmente, che non serve davvero dirsi tutto continuamente, e che persino le orecchie stanno meglio, non fischiano più.

Tornano le domande sulla propria vita, sul senso che le stiamo dando oppure no, e insieme a un sé accantonato nell’angolo torna pure il tempo di leggere, di ascoltare il mare, le onde, di chiudere gli occhi senza fretta, di lasciare che il giorno scorra meno inutilmente di quanto non faccia in certe frenetiche ore cittadine. Certo che quella del viaggio non è una dimensione perpetua, quotidiana, paradigmatica. Eppure da certi viaggi si mette a fuoco qualche dettaglio su se stessi che non bisogna per forza dimenticare al rientro.

Per esempio si capisce benissimo che non è possibile fare colazione tutte le mattine con le frittelle americane, le uova, la pancetta e il succo d’acero. Sennò non si arriva nemmeno al primo semaforo per andare in ufficio. E poi che lo spirito non è un modo di rendersi simpatici né un liquido di contenuto alcolico; non è un accessorio del quale si può decidere cosa fare, se farne qualcosa o meno. C’è e bisogna tenerne conto, renderne conto, saperlo valutare, ascoltare, dargli voce.

Lo spirito siamo noi, il modo in cui guardiamo le cose, e accogliamo le persone, ci accorgiamo della natura, impariamo a decifrarla, a rispettarla. E’ il nostro stupore del mondo e la sensibilità che serve a capire. Questo, a parte le conchiglie a migliaia sul bagnasciuga e l’acqua trasparente e il silenzio, è ciò che dà un’isola come Eleuthera, che significa letteralmente ‘isola della libertà’. E si impara che non serve quasi nulla per essere se stessi, che esistiamo a prescindere da qual che abbiamo. Conta solo un po’ di cultura, ecco, per stare bene anche in paradiso.


(20/07/2007) - SCRIVI ALL'AUTORE


Viaggiare con i 5 sensi è benessere

  
  
 
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