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NEW YORK
ESPLORARE IL GIA' NOTO E STUPIRSI

C’è una certa calma a New York, la città non ti viene addosso, non ti assale. Ti lascia tranquillo in una specie di anonimato dove, volendo, puoi restare a far niente per tutta la vita oppure trovare un modo per diventare ‘qualcuno’, scrivere un film, progettare per la Apple, aprire una piadineria, inventare una cosa che ancora non c’è...


Daniela Mazzoli

Ci sono città che conosciamo da sempre, senza nemmeno esserci mai stati. Perché, comunque se ne parli, il cinema è stata la vera grande rivoluzione del secolo appena trascorso. Così New York, a chiunque venga in mente di visitarla, risulta familiare. Stupisce ma non sorprende. Abbiamo già visto molte volte le sue larghe strade perpendicolari, i suoi marciapiedi pieni di persone con bicchieri di caffè in mano, fumo che esce dall’asfalto per via della metropolitana, vertigini di palazzi specchiati, salutisti che corrono in Central Park.

Soprattutto per i cultori di Woody Allen (Manhattan, Io e Annie, Mariti e mogli) New York risulta piena di suggestioni, di atmosfere, di luoghi della memoria. Curioso per una città in continua evoluzione, tesa a cambiare il proprio aspetto nell’arco breve di pochi anni. Chi la conosce bene e la frequenta per motivi di lavoro racconta che è possibile tornare un anno dopo e non poter cenare nel medesimo ristorante perché magari è stato sostituito da una galleria d’arte o un bar alla moda. Il senso del tempo per i newyorkesi è piuttosto relativo: considerano vecchie, cose di cui un europeo avvertirebbe appena la presenza. Un tassista che tentava di spiegarmi come mai l’immondizia venga lasciata in strada tutto il giorno causando un odore nauseante mi diceva che il problema è tutto nei sotterranei mal costruiti, perché New York –sosteneva- è una città molto molto vecchia…

Superati gli svantaggi di un’aria condizionata siberiana e del cibo che risulta incomprensibile a meno di non vivere nel mondo dei cartoni animati (meglio nella famiglia Simpson), New York offre a tutti qualsiasi cosa in ogni formato. C’è quasi tutto Picasso (distribuito tra Moma e Metropolitan), molto Modigliani, più di un Cézanne, qualche Matisse; per non parlare dei pezzi d’arte greca e romana, delle armature medievali quasi tutte provenienti dal nord Italia. E del Metropolitan non ho visto il secondo piano. Insomma fa piacere e fa un po’ rabbia vedere quanto della nostra ricchezza sia stata acquistata dal denaro del nuovo mondo. Fa piacere ritrovarla così, nell’arco di poche miglia, nella sua sfolgorante meraviglia. Viene un po’ da ridere quando si pensa alle mostre organizzate con grande enfasi e impegno promozionale dai nostri musei (a Roma specialmente) e non troviamo poi –a caro prezzo- che una minima percentuale di quel che godono i newyorkesi ogni giorno, a buon mercato, in pienezza. Un po’ fa sorridere, un po’ fa piangere.

Come in ogni terzo mondo che si rispetti, noi della capitale siamo abbastanza scortesi e molto presuntuosi, aggrappati a piccoli privilegi senza importanza, e ormai per mal costume trattiamo il prossimo sulla base di poche supposizioni e troppi pregiudizi. In America, invece, dove una delle cose certe è il potere d’acquisto, ognuno viene trattato come se da un giorno all’altro potesse diventare presidente degli Stati Uniti, anche se va in giro coi calzoni corti e il cappellino da turista in testa. Persino da Tiffany, dove ovviamente non esiste alcun caffè per fare colazione, i commessi eleganti vi accoglieranno con grandi sorrisi e sincera cortesia. Sarete i benvenuti ovunque e nessuno si infastidirà se il vostro inglese è incomprensibile e le vostre domande pure. Però, anche se nessun turista che visiti l’Italia si preoccupa di imparare una parola d’italiano a parte ‘pizza’, ‘spaghetti’ e ‘arrivederci’, sarebbe buona regola imparare un po’ di ‘english’ prima d’affrontare un viaggio. Non tanto perché questo facilita gli accessi, le richieste, gli spostamenti, ma perché –come diceva Bacone- la cultura di un popolo è tutta nella sua lingua.


  
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