Decrescita viaggiante: Mauro Ferraris e i suoi “cavalieri del cielo”

Mauro Ferraris, torinese, fondatore dell’Alpitrek, scuola molto speciale di equitazione alpina per veri amanti del silenzio e dei grandi spazi, da decenni convive serenamente con una biografia movimentata e fuori ordinanza. La gioventù ribelle, le inquietudini metropolitane degli anni ’70, poi la fuga verso l’assoluto…

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di Giorgio Cattaneo


Mauro Ferraris, fondatore dell’Alpitrek, scuola molto speciale di equitazione alpina. Foto scattata da Natalia Estrada, amante dei grandi spazi e, occasionalmente, fotografa d'eccezione dell'Alpitrek
Viaggiare leggeri. Liberi dentro, aperti al mondo. Portando con sé il minimo indispensabile. «Solo così, lasciando a casa quello che non serve, puoi davvero sentirti a casa ovunque: sotto le stelle dell’Assekrem, sulle Sierras messicane o sui monti dell’Afghanistan».. «Mi ero lasciato alle spalle tutto: gli amici, i compagni, la città. Cercavo valori. Umanità, silenzio. Ho trovato tutto questo sulle Alpi, a mezz’ora da Torino. Non ero solo: avevo con me un fratello, Gregorio». Vero nome: Gregorio Luciano Quintilio. Molto più che un compagno: un cavallo. «L’unico vero cavallo che abbia mai avuto».

Insieme, Mauro e Gregorio hanno scritto pagine di storia dell’equitazione alpina, tracciando rotte sul filo dei ghiacciai: il Rosa, il Gran Paradiso.

Tutto è cominciato con una scelta drastica: abbandonare la città. «Sentivo il bisogno di cose autentiche e semplici, antiche. Ho trovato un rustico, l’ho comprato, ci ho lavorato su per farne un campo base adeguato». Borgata Brancard Villa, fondovalle di Giaveno, val Sangone. La tana accogliente di un grande capo indiano. Cucina spartana, legno e vimini, cataste di libri. Il tepore buono di una vecchia stufa accanto alla quale affettare del lardo profumato, fatto in casa. Dappertutto, oggetti che raccontano: coltelli, guaine, fodere, cappelli, tessuti, pelli. «Dai montanari ho imparato a cavarmela in qualsiasi situazione, recuperando la manualità perduta. Ma i grandi maestri sono stati gli indiani, i Lakota Sioux di Fort Laramie, il popolo di Cavallo Pazzo. Sono stato con loro per un anno intero. Credevo di saperla lunga. Poi, quando li ho visti cavalcare a pelo, ho capito. Per un anno, per rispetto, ho evitato di montare in sella su un quadrupede. Loro sì, sono cavalieri».

L’imprinting di Mauro è stato quello degli scout: suo padre era un condottiero avventuroso di giovanissimi esploratori. Per questo, malgrado i trascorsi anarcoidi dei vent’anni, alla fine ha sentito il richiamo delle regole: la disciplina, l’esercito. «Solo lì, infatti, sopravvive una tradizione basata sul rispetto assoluto del cavallo». Pinerolo, storica sede del Savoia Cavalleria, era la palestra del mitico Renato Caprilli, principe dell’equitazione militare italiana. Da Pinerolo arriva il maniscalco dell’Alpitrek, il maresciallo Antonio Blasio, anche lui arruolato nella tribù nomade di Mauro Ferraris. Che, cavalcando e scrivendo, con le forze armate ha collaborato a svariati progetti di taglio culturale: un pellegrinaggio a tappe sulle tracce degli ultimi muli degli Alpini, un viaggio in Carnia sulle orme dell’armata cosacca e, infine, una marcia epica: dalla Romania a Isbuscenskij, sul Don, dove il Savoia Cavalleria attaccò per l’ultima volta. «Fu l’ultima carica a cavallo nella storia della cavalleria. I cavalieri furono falciati da un reparto di mitraglieri appostati in un campo di girasoli. La leggenda racconta che i russi curarono i feriti italiani, e viceversa».

mauro ferraris
Mauro Ferraris la sua personale decrescita l'ha inaugurata molto tempo fa
Cinquant’anni dopo, la carovana dell’Alpitrek tornò su quelle colline, portando in dono lo stendardo del battaglione italiano e ritirando, in cambio, quello del reggimento russo. Una stretta di mano fortissima, nel vento del Don. «Poi fummo ospitati dai cosacchi, in un villaggio. Ricordo ancora il calore entusiasta dell’Ataman, il loro capo: noi e i nostri cavalli eravamo i primi a varcare in quel modo la frontiera dell’ex Unione Sovietica. Ci siamo capiti subito. Come, del resto, con tutta la gente della Russia, paese che ti toglie il fiato per la bellezza infinita della sua semplicità. Altre modalità di vita, più umane, lontane mille miglia dal nostro delirio consumistico occidentale».

Ecco, appunto: consumismo. A parlargli di Decrescita, Mauro si mette a ridere. «Davvero esiste un movimento che la mette in pratica? Era ora!». Lui, la sua personale Decrescita, l’ha inaugurata molto prima dell’uscita in libreria dei sacri testi di Serge Latouche e Maurizio Pallante. «Lo spreco è un delitto, come il consumismo: è sempre una truffa, un’aggressione gravida di conseguenze negative. Tutte le grandi civiltà, quelle che ho conosciuto in giro per il mondo, si basano su uno stile di vita semplice e sobrio, sulla capacità di autoprodurre i beni necessari, sulla bellezza dello scambio in forma di dono. Questo vale per gli indios, per i messicani delle alture, per i beduini del Maghreb, per i contadini dell’Ucraina e quelli delle montagne di Kandahar». Ci si presenta, ci si annusa, si accende un fuoco, si divide il pane. «Se sei trasparente, leale, non hai problemi con nessuno. Ti capiscono al volo. Anche se la persona che hai di fronte è un pellerossa, o un kirghiso, o un pashtoun. Siamo tutti uguali, abitiamo la stessa Terra e abbiamo bisogno delle stesse cose».

Dagli anni ’80, fra stage di specializzazione, imprese equestri, missioni e campi-scuola in altura, Mauro Ferraris e i suoi “cavalieri del cielo” hanno intrapreso la loro personalissima e informale Decrescita viaggiante. «Non è tanto questione di filosofia, ma di pratica: saper fare di tutto un po’, adattarsi, rispettarsi, apprendere». Per molti anni, il “saper fare” di Mauro s’è tradotto in artigianato pregiatissimo, di foggia Sioux. «Prima, dagli indiani d’America, ho imparato a fabbricarmi da solo un sacco di cose: pantaloni, giubbe, calzature, giacconi. Poi, per vivere, ho aperto una bottega artigiana, vendendo i miei manufatti. Attività che continuo a svolgere, ma con calma, un poco alla volta: non mi interessa accumulare profitti, preferisco godermi i cavalli, gli amici, la pace delle montagne».

arianna e paola
Arianna Corradi e Paola Giacomini, due delle amazzoni della scuderia nomade. Foto scattata da Natalia Estrada
Ricetta semplice e antica, che attraverso gli anni ha dato origine ad un network spontaneo e virtuoso di affinità elettive, di storie che prima o poi s’incrociano. Come quella di Natalia Estrada, già reginetta del cinema pieraccionesco ora convertitasi alla suggestione dei grandi spazi e, all’occorrenza, fotografa d’eccezione dell’Alpitrek. O quelle di Arianna Corradi e Paola Giacomini, due delle amazzoni della scuderia nomade che un giorno incontrarono il grande reporter Paolo Rumiz sul valico alpino del Col Clapier, tra Italia e Francia, intento a rilevare tracce del mitico transito di Annibale coi suoi elefanti. “Donne di poche parole, un’anomalia nell’Italia delle veline”, le descrive Rumiz nel libro “Annibale” (Feltrinelli) rievocando l’incontro, magico come un’apparizione. “Vanno a Cantherbury per la Via Francigena e avranno trent’anni”.

Arianna ora scriverà un libro, sul viaggio a Cantherbury: quaranta giorni a cavallo, attraverso l’Europa. Paola, invece, è in partenza per i Pirenei: scorterà un’altra viaggiatrice equestre, diretta sui monti tra Santiago e Lourdes. Mauro, l’orso grigio, la guarderà partire e sorriderà, pensando che l’erba buona non ha mai smesso di crescere, nelle praterie del cielo e in quelle di Giaveno, sulle Alpi italiane, dove trent’anni fa si costituì il primo avamposto di una scommessa semplicissima e frugale: che ancora non si chiamava Decrescita, ma già sapeva di pace e neve, fratellanza e libertà.

16 Marzo 2009 - Scrivi un commento
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Un lettore ha commentato questo articolo:
17/3/09 09:46, paolo ha scritto:
bello, grazie
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