Coabitare oggi si può, anche in affitto

Anche in Italia si comincia a parlare di cohousing. A Milano, Pisa e Biella, infatti, sono partite le prime iniziative. Di cosa stiamo parlando? Di un nuovo modo di concepire la propria vita, la propria privacy e la propria socialità. E di un nuovo modo di risparmiare e condividere.

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di Virginia Greco


Si chiama residance, si trova a Milano ed è stato realizzato dalle organizzazioni “cohousing.it” ed “esterni”, con il supporto del Comune: si tratta della prima esperienza europea di coabitazione in affitto. Trentotto appartamenti - da trenta a sessanta metri quadrati - affittabili da giovani di non più di 35 anni per un periodo che va da pochi mesi a quattro anni, a dieci euro al mq al mese.

Duecento metri quadrati di spazi condivisi che i futuri coresidenti (suggestivamente definiti residancer) stanno progettando insieme, definendo gli ambienti e i servizi da condividere al fine di ridurre i costi e la complessità della vita.

I ragazzi che si sono iscritti al progetto sono già duecentocinquanta e l’interesse per questa iniziativa cresce quotidianamente.

Il cohousing, nato in Danimarca a cavallo tra gli anni ’60 e ’70 e diffusosi poi rapidamente in Canada, Stati Uniti, Svezia, Olanda, Inghilterra, Australia e Giappone, è quindi di recente approdato anche in Italia. Nel nostro Paese sono al momento in fase di realizzazione sei progetti, che hanno sede a Milano e provincia, Biella e Pisa.

A supportare lo sviluppo di tali realtà, si è costituita una comunità virtuale (cohousing.it) che si propone di unire le voci, le idee e le esperienze di quanti in Italia sono coinvolti in progetti di coabitazione o desiderano entrare a farne parte.

L’esperienza della coresidenza risponde alle esigenze dei tanti che - secondo quanto dimostrato da ricerche effettuate in America e in Europa – sarebbero alla ricerca di una dimensione di socialità forte, perdutasi nel tempo per via dei nuovi stili di vita acquisiti e della struttura stessa delle odierne città. Coabitare significa condividere spazi, servizi e tempi, significa aiutarsi reciprocamente, nonché collaborare per ridurre le difficoltà, gli stress e i costi di gestione delle attività quotidiane.


I gruppi coabitanti sono costituiti generalmente da 30-40 famiglie che si incontrano e si “scelgono” (partecipazione elettiva). Esse, nell’arco di varie riunioni, decidono quali aree e risorse mettere in comune e come organizzarle e gestirle (progettazione partecipata). Il metodo del consenso è strumento privilegiato in questi consessi per il raggiungimento di accordi.

Non ci sono principi ideologici, religiosi o sociali alla base del formarsi delle comunità di cohousing; al contrario, si tratta di gruppi abbastanza eterogenei in termini di età, culture e professionalità. Le diversità sono in genere vissute come una ricchezza da sfruttare per meglio soddisfare le esigenze di tutti.

I coabitanti gestiscono e amministrano essi stessi la loro comunità, in un regime democratico: non è prevista una struttura gerarchica, sebbene in alcuni casi si ricorra all’elezione di responsabili di qualche spazio o compito.


La vita in coabitazione è caratterizzata da un alto livello di socialità (tra membri che si conoscono bene e condividono realmente qualcosa), di sicurezza (l’ambiente risulta sicuro e collaborativo) e di convenienza economica. Infatti, oltre a spazi sociali come aree verdi, orti, hobby-rooms e stanze da gioco per i più piccoli, si condividono risorse e servizi.

In primo luogo le abitazioni - che usualmente sono vecchi edifici riqualificati - vengono equipaggiate con sistemi di climatizzazione ad alta efficienza e spesso anche impianti di produzione energetica alternativa (fotovoltaico, mini-eolico, mini-idrico): ciò riduce l’impronta ecologica dei membri della comunità, esigenza generalmente molto diffusa in chi si avvicina all’esperienza del cohousing, e in aggiunta garantisce un risparmio effettivo sulle bollette.

Si inseriscono di frequente, inoltre, ambienti per il fitness (palestre, piscine) e lavanderie comuni, attrezzate con macchine industriali a basso impatto ambientale ed energetico e funzionalità professionale (che porta ancora alla riduzione delle spese monetarie).

In molti casi il cohousing si accompagna anche a scelte di condivisione di mezzi di trasporto (biciclette, motorini e auto) e creazione di gruppi di acquisto, i quali consentono di ricevere alimenti genuini e merci direttamente dai produttori. Ciò che consegue è un elevato risparmio a parità di qualità, nonché la possibilità di mettere in atto pratiche di consumo critico.

Infine, in alcune situazioni più virtuose, si ha anche l’organizzazione di piccoli asili-nido, infermerie e spazi per il telelavoro.


La coabitazione è un progetto ambizioso ma concreto, che sta dimostrando sempre di più di essere un’alternativa possibile e reale all’abitare tradizionalmente inteso; ma è anche una filosofia di vita, una scelta di socialità e condivisione, di rispetto dell’altro come dell’ecosistema.

Se le prime comunità coresidenti sono nate quarant’anni fa, molte sono ben più giovani e – in generale – il cohousing è un fenomeno ancora in piena evoluzione. Nuove problematiche vengono poste e soluzioni tentate, per rendere le comunità sempre più efficienti e soddisfacenti per chi vi abita.

Come tutte le realtà che comportano condivisione e organizzazione da parte di tanti individui, anche le microsocietà virtuose di coresidenti vedono sorgere conflitti in seno ad esse. Per quel che traspare dalle testimonianze di quanti vivono quotidianamente tale esperienza, ciò che rende forte le comunità di coabitanti è il processo di costituzione e la fiducia nel progetto. I gruppi creano con coscienza e partecipazione attiva il proprio villaggio, imparando a relazionarsi tra essi fin dai primi passi, spianando i conflitti durante la fase di sviluppo del progetto; ciò su cui fanno leva è la volontà di costruire qualcosa tutti insieme, in una sorta di concetto allargato di famiglia.

I nuclei familiari arrivano, in genere, a prendere possesso dell’abitazione quando la comunità si è già parzialmente formata come tessuto sociale: i membri hanno avuto modo di conoscersi, di scegliersi ed, eventualmente, ritirarsi in caso di inadeguatezza riscontrata.


Ovviamente alcune famiglie si aggiungono in corso d’opera; inoltre le abitazioni possono essere lasciate e, quindi, gli abitanti rimpiazzati (evento finora raro): è intuibile che per gli ultimi arrivati l’ingresso nella comunità sia più difficile.

Sicuramente non è pensabile (almeno al giorno d’oggi) una conversione globale dei quartieri in comunità di cohousing; del resto molte persone sono estremamente legate ai concetti di proprietà privata e individualismo. Ma il diffondersi di esperienze di coresidenza rappresenta comunque un segnale positivo di una volontà, da parte di alcuni cittadini, di ripensare il centro abitato e di costruire attivamente l’ambiente in cui vivere.

(Per informazioni più dettagliate e testimonianze, consultare il libro “Cohousing e condomini solidali” a cura di Matthieu Lietaert, Edizioni A.A.M. Terra Nuova).

23 Novembre 2008 - Scrivi un commento
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Un lettore ha commentato questo articolo:
28/3/09 14:01, valeria ha scritto:
secondo me invece la conversione dei quartieri in comunita'cohousing e'non solo possibile ma anche necessaria.soprattutto nelle periferie e'indispensabile una riqualificazione totale che metta al suo centro gli abitanti:creare infrastrutture*, giardini, orti, luoghi di incontro e socializzazione, riqualificare esteticamente gli edifici (la maggior parte orrendi)rendendoli gradevoli per chi ci abita.
*il mio concetto di infrastruttura e'ben altro da quello dei nostri politici:non inutili costruzioni ma,per esempio gruppi di acquisto,impianti di raccolta dell'acqua piovana e fitodepurazione,biciclette da prendere in prestito,biblioteche,laboratori e chi piu'ne ha piu'ne metta.
sarebbe interessante creare una economia locale.
certo per realizzare queste idee bisogna che gli abitanti dei quartieri lo vogliano.e di certo nessuno e'contento dello stato attuale delle cose.
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