Al mercato del pesce

La pesca industriale è una delle attività più degradanti per l'ambiente: entro il 2050 la pesca come la conosciamo potrebbe non esistere più, perchè con questi ritmi di sfruttamento la vita sottomarina rischia quasi la scomparsa. Breviario dei mali della pesca intensiva moderna, dalle attività di frodo, alla caccia ai cetacei, fra compiacenza dei governi e pescherecci fantasma.

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di Stefano Zoja


Giant feast, foto di Felipe Barrio
Tracciabilità, filiera: sono concetti che per l’industria ittica rimangono ancora poco più che un auspicio. Nei negozi e nei mercati i cartellini identificativi della merce sono spesso assenti o imprecisi, tanto più se si parla di pesce selvatico e non d’allevamento. Ma anche in quest’ultimo caso vengono marchiate (non sempre) le cassette, con buona pace della reale provenienza dei pesci che possono essere stati aggiunti, spostati, mescolati. Ci si trova spesso a osservare pesci giovani, catturati prima che diventassero adulti. E poi le vongole che non sempre sono fresche, o le sogliole che non sempre sono sogliole. Così, a pagare e rischiare è il consumatore, e con lui, meno tutelato di un pollo o di un peperone, il merluzzo e tutti gli altri pesci soggetti a uno sfruttamento intensivo, e proprio a questo fine privati di un’onorata tracciabilità.

Avverte la Fao che tre quarti delle specie ittiche esistenti sono sfruttate in maniera eccessiva, in alcuni casi fino al rischio di estinzione. Sono dati recenti, cui faceva eco un’inchiesta di Science nel 2006, secondo la quale un terzo delle specie esistenti era “collassato”, ovvero il numero degli individui era crollato di oltre il 90% rispetto alla massima popolazione osservata. Fra meno di cinquanta anni, diceva lo studio, potrebbe non esserci più niente da pescare in natura. Dietro queste cifre si staglia il Mercato del pesce, quello con la maiuscola, il commercio globalizzato e incontrollato di risorse ittiche, del quale negozi e mercati che frequentiamo noi sono solo gli opachi terminali.


Un pescatore lancia un rete, foto di Ricardo Carreon

Per descrivere un sistema affaristico così poco lungimirante da perdere di vista, insieme alle drammatiche conseguenze ambientali, la propria stessa sopravvivenza, bisogna richiamare diversi fenomeni. Primo fra tutti, la pesca di frodo. Il mercato illegale del pesce ha dimensioni inimmaginabili: in Inghilterra, patria del “fish and chips”, un terzo del pesce consumato arriva dalla pesca illegale nel Mar Baltico e nel Mare del Nord, ed è in crescita. E’ un traffico gestito in larga prevalenza dalla mafia russa, che dopo il crollo dell’Unione Sovietica, si impossessò della sua flotta mercantile.

Vecchie navi da pesca vengono noleggiate per periodi più o meno brevi dalla mafia, che ha acquistato a poco prezzo le bandiere di stati compiacenti da far ruotare sui pescherecci che controlla. Panama, Isole Cayman, Tonga e tante altre si prestano a un giro imponente: la Mongolia, che non ha sbocchi sul mare, risulta possedere una flotta mercantile più grande dell’Australia. Il pescato viene spesso trasbordato da una nave all’altra, per far perdere le tracce della sua provenienza, ma il risultato finale di questo giro è spesso l’acquisto da parte delle grandi multinazionali del pesce – Findus, Unilever, Frosta, ecc. – tutt’altro che scrupolose nell’accertare la provenienza legale del pesce.

Per soddisfare la dirompente crescita della domanda interna anche la Cina si è lanciata nella pesca illegale. E lo ha fatto con la forza dei suoi numeri: in qualsiasi momento, al largo delle coste dell’Africa occidentale, almeno un peschereccio su due è impegnato in attività illegali. Molti di questi battono bandiera cinese, o lavorano per loro conto. Un mercato selvaggio, sregolato, che punta anche specie di grande pregio come l’aliotide o lo squalo, del quale interessano le pinne, oppure il cavalluccio marino panciuto, che i Cinesi pescano nei mari australiani e importano per le sue supposte proprietà afrodisiache.

La pesca di frodo, che aggira quote, regole, concessioni, è anche un’attività relativamente semplice da condurre: pattugliare il mare in maniera serrata è molto costoso e complesso, e spesso non lo si fa. Questo rende i pirati della pesca ancora più spregiudicati: spesso la forza lavoro a bordo delle imbarcazioni viene mantenuta ai limiti della schiavizzazione. I turni possono durare anche uno o due anni, durante i quali i pescatori, spesso cittadini di stati molto poveri, non scendono mai dalle navi, anche perché privati in partenza del loro passaporto. Vecchi pescherecci e pescatori sfruttati solcano i mari per tempi anche lunghissimi, cambiano più volte bandiera in corso di navigazione, pescano senza sosta, commerciano, e talvolta affondano, senza che nessuno ne sappia nulla. Si capisce come, con queste pratiche, il mercato ufficiale subisca una concorrenza sleale ed entri in crisi.


Una barca per la pesca di frodo - da www.scoop.co.nz.jpg
Per non farsi mettere all’angolo dalle attività illegali e per soddisfare una domanda interna (ed esterna, vedi Giappone) sempre molto alta, anche l’Europa, uno dei mercati più regolamentati e in apparenza virtuosi, chiude di fatto un occhio sugli eccessi dei propri pescatori. Un caso emblematico è quello del tonno. Paesi come Italia e Francia da tempo superano regolarmente le quote previste, al punto da avere reso il tonno un pesce ormai raro. Su questa stessa scarsità, che ne ha accresciuto il valore, giocano ora i pescatori di frodo del Mediterraneo, che aumentano i loro profitti. Ma la catena delle responsabilità comincia ancora prima, con la fissazione di quote di pesca decisamente superiori a quelle suggerite dagli scienziati. Del resto, la stessa Unione Europea si serve per la consulenza sul tema di una delle più inefficienti associazioni per la tutela animale, l’Iccat (per gli anglofoni: International Commission for the Conservation of the Atlantic Tunas, rinominata dai meglio introdotti International Conspiracy to Catch All Tunas), un organismo infiltrato da ogni genere di lobbysti, che in 42 anni di esistenza non è riuscita a impedire a specie ben note e un tempo diffuse, come il tonno rosso, di arrivare sull’orlo dell’estinzione.

Ma il vizio d’origine del mercato europeo, analogamente a ciò che avviene nel settore agricolo, sono i sussidi attribuiti ai pescatori comunitari. L’intenzione al principio era quella di consentire al consumatore finale di trovare prezzi bassi al banco del pesce, sovvenzionando i pescatori in maniera da ridurre i loro costi ed evitando che questi si rivalessero su chi fa la spesa. Ma questo meccanismo ha creato una spirale perversa, che ha incoraggiato molte persone ad aggregarsi a un settore che promette sussidi da favola e che ha indotto una forte concorrenza fra gli operatori. Risultato: il mare si è svuotato più rapidamente del previsto e ora i pescatori si trovano in reale difficoltà (tanto più con il recente rincaro del gasolio), dopo avere beneficiato lungamente di un mercato drogato. Per questo c’è chi sostiene che se si eliminassero i sussidi assisteremmo a un salutare sgonfiamento di questo mercato, e a un sollievo per le specie marine.

Ma le ipocrisie di molti stati del cosiddetto “primo mondo” si rivelano anche in un altro settore, quello della pesca dei grandi cetacei. Si è concluso pochi giorni fa a Santiago del Cile l’ultimo vertice internazionale dell’Iwc, l’International Whaling Commission, preposta alla tutela delle balene. Molti stati hanno sul tema atteggiamenti virtuosi, dal Cile padrone di casa, che in quest’occasione ha bandito la caccia delle balene dalle sue acque territoriali, a Sud Africa, Argentina e Brasile, che hanno proposto la costituzione di grandi santuari di cetacei nelle loro acque, anche in funzione di un più redditizio e sostenibile whale-watching, ai tanti paesi contrari a questo tipo di pesca, come l’Italia e gran parte dell’Europa.

Eppure, nonostante la caccia alle balene sia di fatto impedita da una moratoria internazionale del 1986, esiste un fronte di paesi, guidati da Giappone, Norvegia e Islanda, che insiste nell’attività, giocando con disinvoltura con le ridotte quote consentite per la caccia a scopi “scientifici”. Un’altra significativa argomentazione in favore della caccia è che la vorace dieta delle balene ridurrebbe la disponibilità di risorse ittiche per i pescatori, e che perciò sarebbe bene sfoltirne la popolazione: un improbabile testacoda delle responsabilità, con scarsissimo supporto scientifico. Al di là delle giustificazioni ufficiali, le balene vengono cacciate in larga parte per il valore commerciale della loro carne, rivenduta come sushi nei ristoranti, come surgelato, o anche sotto forma di “whale burger” in qualche fast-food giapponese.

Balene e cetacei in genere, non sono però al sicuro neanche nei paesi amici: esistono diverse tecniche di pesca a strascico, praticate più o meno legalmente nei mari di tutto il mondo, che colpiscono specie diverse da quelle previste. Esempi tradizionali sono le reti concepite per catturare selettivamente tonni o gamberi, ma che una volta issate fuori dall’acqua contengono di tutto, dalle balene, ai delfini, alle tartarughe. Di solito gli animali non previsti vengono liberati nuovamente in acqua, ma non mancano i casi in cui questi sono stati già uccisi dalla rete, o quelli di pescatori più interessati al portafoglio. E i governi, sul tema, producono più raccomandazioni che leggi incisive.

Diventa un gioco facile evidenziare come le tecniche di pesca a strascico simboleggino bene le dinamiche di un mercato di rapina, quello ittico, di cui abbiamo tracciato solo le coordinate principali. Una ricognizione ancora parziale di uno dei settori più sregolati del commercio globale. Pesca di frodo, leggi inadatte, governi balbettanti, compagnie spregiudicate, fino a veri e propri criminali: per la stessa fisiologia del processo produttivo, si tratta di un mercato difficile da controllare, in cui l’atteggiamento disinvolto, quando non predatorio, degli operatori ha finora dato risultati ben remunerativi. Un mercato che dopo la caduta del muro di Berlino, e in seguito ad accordi commerciali spesso pirateschi, ha visto frotte di pescherecci liberarsi nei cinque oceani.


Un tonno -da www.wissenschaft-online.de

Eppure ci sono evidenti conseguenze sul piano ambientale, ma anche economico, che vengono ignorate. Quando la Fao spiega che proprio il pesce è la risorsa naturale che stiamo consumando con più rapidità, la campana dovrebbe suonare anche per le aziende e i governi. Invece sembra che ascoltino solo altri scienziati. Callum Roberts, professore di conservazione marina all’università di York, dichiara fra serietà e sarcasmo che forse nel 2050 dovremo ricorrere alle meduse, quando per metà della popolazione non saranno più disponibili le necessarie proteine del pesce. Eppure erano linee di tendenza che, a differenza di altri ambiti come il riscaldamento globale, mettevano d’accordo gli scienziati già negli anni cinquanta sul rischio di un sostanziale esaurimento del pesce in natura.

Ora alcuni studiosi guardano con interesse al forte innalzamento dei prezzi degli ultimi tempi, che sta colpendo anche questo settore. Una bella crisi, dicono, è proprio quello che ci vuole. Dunque, ancora e sempre l’economia. Basterà? Roberts aggiunge la sua ricetta: vaste aree oceaniche, fino al 40% del totale, dovranno diventare riserve naturali. Salvaguardia immediata dei pesci e ripopolamento: anche se alcuni danni non sono più reversibili, se si comincia subito si può ancora fare molto.

2 Luglio 2008 - Scrivi un commento
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