E venne il giorno

Il regista indiano Shyamalan, con il film E venne il giorno, ci trasporta in un’imminente crisi epidemica, dovuta alle alterazioni naturali causate dall’uomo e dal suo sistema inquinante. Vediamo il film, usciamo dalla sala riflettendo su quel che abbiamo visto, comportiamoci di conseguenza, sperando rimanga solo finzione.

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di Giancarlo Simone Destrero


E alla fine, l’orrore divenne inevitabile. Questo potrebbe essere il sottotitolo del film in questione, dove davvero, è il caso di dirlo, la tensione del pericoloso imprevisto si respira nell’aria. Un imprevisto incorporeo ed invisibile che viene trasportato dal vitale agente atmosferico.

La risposta della natura all’uomo, soffiata dal vento. La scelta di M. Night Shyamalan è di quelle che vanno dirette al punto. Ridondante e documentaristico –purtroppo- sarebbe stato illustrare le cause del racconto che sta per dipanarsi sullo schermo, meglio fantasticare su una delle possibili reazioni del nostro pianeta al pericolo che la nostra specie ormai rappresenta.

E così, sin dalla prima sequenza, l’alterazione del rapporto uomo-vegetazione sprigiona un’inspiegabile follia che si insinua nelle menti degli esseri umani presenti nello spazio dell’inquadratura.

Una sorta di nemesi divina, a vendetta di una sacralità da troppo tempo ormai profanata ed economicizzata. Subito dopo, infatti, il protagonista della storia ci esplicita quello che, in realtà, è il pensiero del regista: l’uomo ha troppo forzato la mano, con la presunzione di poter conoscere e gestire tutto, affidandosi nello specifico ad un bieco scientismo, ed ha ignorato le eterne forze in conoscibili che formano il creato e che si manifestano nella natura.

Una sapiente, ed allo stesso tempo semplice, presa di coscienza tradizionale. Una rivendicazione antimoderna, contro la profanità dell’effimero imperante nella nostra contemporaneità.

Ed ecco gli effetti di tanta degenerazione; il regista de Il sesto senso ci catapulta, senza preavviso, dentro l’incubo, con una linearità causale ed una semplicità semantica carpenteriane –oltre agli evidenti riferimenti hitchcockiani- rendendo sensazionale ed impressionante, per esigenze drammaturgiche, uno di quei tanti avvertimenti che, mutatis mutandis, la natura sta dando all’uomo fuori della sala cinematografica.

Infatti, quello che si verifica nel tempo diegetico delle 24 ore in cui si sviluppa la fabula, una tossina nociva sprigionata dalle piante, è solo un assestamento dello smottamento relazionale – forse mai simbiotico, ma adesso sicuramente oltraggioso- tra uomo e natura.

Un rapporto che, nonostante un attimo di eroismo rurale dei protagonisti nell’ultima parte del film, non cambia, collettivamente, ed è solo l’anticamera del definitivo ko della specie umana, che il regista ci lascia intuire.

Alieni, spettri e sirene, possono anche non esistere o non essere mai compresi e calcolati dalla scienza ufficiale, rimanendo per i più limitati pure invenzioni finzionali, da approfondire a seconda delle mode e delle paure del momento, ma il tema che sostanzia l’orrore di questo film non scaturisce, purtroppo, dal talento immaginifico del regista, non vuole essere metafora di nient’altro, non allude alle ancestrali paure umane dell’ignoto.

E’ l’oggettiva constatazione di che, aldilà di ogni personale visione effettiva, dovrà prima o poi esplodere. Shyamalan accelera solamente il conto alla rovescia.

Speriamo che il timore e l’angoscia provocati da questa visione possano davvero – invece di suscitare dibattiti sull’effettivo valore del film- servire a far rinascere quel rispetto primigenio verso la natura.

18 Giugno 2008 - Scrivi un commento
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