L'Urlo

Il dibattito inquinato

Ora che l’emergenza ambientale ha conquistato uno spazio centrale nel dibattito pubblico, vanno radicandosi atteggiamenti pregiudiziali e toni da crociata. Ma gli ideologismi, a volte interessati, sono proprio ciò di cui il pianeta non ha bisogno.

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di Stefano Zoja


Il palazzo dell'Onu a New York
Emergenza è una delle parole più care al giornalismo di oggi. Fra aberrazioni della contemporaneità lungamente ignorate e illeggibilità del mondo postmoderno, forse siamo noi stessi a evocarle e ad averne bisogno. Fatto sta che oggi è difficile distinguere fra emergenze vere e presunte, situazioni di imminente e generalizzato pericolo e titolazioni ipervitaminizzate. A farne le spese è la chiarezza del dibattito e, in definitiva, la nostra capacità di azione.

Fra le mille oggi in voga, l’emergenza climatica è forse la più celebre e celebrata. I toni e la durezza della disputa sull’ambiente, che vede agli estremi i negazionisti e i catastrofisti ormai quasi incapaci di salutarsi, ne hanno fatto un’autentica guerra di religione, con tanto di santi, eresie, testi sacri e riti. Forse ancora meglio, l’hanno resa l’ultima ideologia, e a giudicare dallo smarrimento degli ultimi anni di pensiero unico e inerte, parecchi, sottovoce, direbbero che ce n’era bisogno.

Ma agitando il messianismo o i proclami emergenziali non si fa un buon servizio al pianeta. Persino la scienza rischia, controvoglia, di scivolare nella spirale, fornendo spunti agli urlatori nell’arena della disputa ambientale. L’arma a doppio taglio è la modellistica, cioè le previsioni del futuro attraverso calcoli e strumenti informatici. Quando si tratta di tendenze, cioè di sintetizzare la direzione in cui ci muoviamo, spesso gli scienziati hanno ragione, quando aggiungono le date non di rado inciampano. Così questi stessi modelli spesso vengono branditi in un primo momento dagli ecologisti radicali, e, dopo la data di scadenza, dagli ottimisti a ogni costo.

Ancora più perversa è la fioritura delle leggende, come quella sullo studio del 1972 del Club di Roma, il Rapporto sui limiti dello sviluppo, che prevedeva l’esaurimento non lontano del petrolio. Già diversi anni fa molti scettici accusarono gli autori dello studio di avere sbagliato la previsione, che per quel tempo si sarebbe già dovuta verificare. In realtà il documento poneva l’esaurimento dell’oro nero oltre gli anni duemila, ma bastarono quelle voci a minare la credibilità del rapporto presso l’opinione pubblica.


Al Gore in un'immagine del film An unconvenient truth
Un caso simile è quello del libro-documentario di Al Gore, An unconvenient truth, con la condanna di un tribunale inglese, che metteva in discussione la scientificità di diverse parti del lavoro. In quegli stessi giorni, Al Gore veniva insignito del Premio Nobel per la pace, insieme all’Ipcc, l’organismo dell’Onu per lo studio dei cambiamenti climatici. Catastrofisti e negazionisti trovavano ciascuno i propri argomenti per rinnovare discredito o fiducia nei confronti di uno degli alfieri dell’ambientalismo.

Il rischio di questa battaglia di religione è che politici, studiosi e cittadini passino più tempo a rivendicare questo o quell’argomento al proprio schieramento che a occuparsi del deterioramento del pianeta. E’ proprio ciò che è accaduto con il dibattito suscitato da Al Gore sul riscaldamento globale. Tanto ci si è concentrati a confutare o difendere la tesi – peraltro ormai consolidata – del contributo antropico all’aumento della temperatura, che ci si è scordati che esistono altri aspetti della questione ambientale che paiono anche più urgenti.

Questi si chiamano acqua, terra, energia. Chiaramente non possono che essere affrontati in modo sistemico, e non solo si può, ma si deve relazionarli al tema del riscaldamento globale. Tuttavia ciascuno di questi è anche un ambito autonomo, che contempla problematiche indipendenti dall’aumento della temperatura.

Per esempio di acqua ce n’è sempre meno rispetto al fabbisogno, e peraltro localizzata male. L’uomo non solo ne preleva dalle falde freatiche a un ritmo superiore alla sua rigenerazione, o devia e consuma fiumi e rigagnoli con spensieratezza, ma nemmeno è capace di tenere in buona efficienza le tubature delle regioni del primo mondo. E quanta consapevolezza c’è sul fatto che l’acqua che usiamo e beviamo nelle nostre case è a malapena un 5% di quella che consumiamo per usi indiretti, cioè agricoli o anche industriali? Ad esempio, per produrre un piatto di riso occorrono cento litri d’acqua. E un discorso simile si può fare per la disponibilità di terra “buona”, coltivabile: con gli spostamenti dell’agricoltura ci mangiamo boschi e foreste, mentre dissecchiamo territori interi: dove decenni o anni fa crescevano ortaggi e ora c’è il deserto.

Più sentito è il tema dell’energia, non foss’altro perché è la base di ogni nostra attività, a partire, naturalmente, dall’economia: considerato come un bene, l’energia è l’unico che non può essere sostituito da nient’altro che un’altra forma di energia. In fondo è grazie a questa che si producono macchine, vestiti, alimenti, mobili e, in definitiva, soldi. Succede così che intorno all’energia si è creata un’altra battaglia di religione, curiosamente simile alla precedente.

Finchè si è proceduto a ranghi uniti nella scia oleosa del petrolio tutti tranquilli, salvo qualche isolato contestatore. Diversi governi e compagnie erano ben contenti di sfruttare una risorsa comoda da estrarre, da trasportare, e benedetta dalla geopolitica, al punto da mantenerne artificialmente contenuto il prezzo. Ma ora si è arrivati vicini (2020 – 2030) al picco della produzione e da lì in avanti questa potrà solo decrescere. Qui si è avuto lo scisma, dovuto anche ai timori suscitati dal riscaldamento globale.

All’aumentare del prezzo del petrolio, si è esteso il dibattito sui possibili sostituti. Il partito del gas (meno inquinante, ma complesso da gestire) e quello del carbone (più sporco anche del petrolio) devono fare i conti, oltre che con gli ambientalisti, con la finitezza delle risorse fossili, esattamente come i petrolieri. Si parla di qualche decennio in più (difficile fare previsioni precise), ma l’esito ulteriore dovrà essere quello delle energie da fonti rinnovabili o del nucleare.

Le lobby del nucleare rivendicano efficienza e affidabilità della loro soluzione, senza però dare risposte convincenti sullo smaltimento delle scorie, e senza conoscere quali siano realmente le disponibilità di uranio nel pianeta, dato incerto persino per i militari. La via più logica, e l’unica credibile a lungo termine è quella delle rinnovabili, che stanno dando luce a nuove nicchie di business, che potranno trainare l’iniziativa.

Ma sia gli uni che gli altri tendono a ignorare questo dato fondamentale: l’energia nucleare, così come quella rinnovabile, potranno coprire soltanto una parte ridotta del fabbisogno energetico: intorno al 10% il nucleare, e al 20% le rinnovabili. Ne derivano due conseguenze. Innanzitutto, da qualsiasi orientamento si parta, e al di là delle aspirazioni, ideologie o convenienze, per il breve e medio termine non si potrà fare altro che parlare di mix energetici.


Ma soprattutto, e qui siamo all’uovo di Colombo, la via maestra che si scorge è quella dell’efficienza e del risparmio energetico. Senza una seria politica (culturale anche) di ridimensionamento dei consumi non ci sono soluzioni praticabili, tantomeno unilaterali. Naturalmente questo argomento scalda pochi cuori: innanzitutto quelli dei lobbisti del fossile o del nucleare, ma lo stesso vale per l’uomo della strada, che da sempre si sente dire “crescere, fortissimamente crescere”. E’ più sexy raccontarci l’efficienza tecnologica del nucleare, o anche la coscienziosità delle rinnovabili; appare più stimolante, e quasi inevitabile, parlare di cosa possiamo fare in più, anziché di ciò che dovremmo fare in meno, ma la svolta richiesta, dati alla mano, passa proprio dal ridimensionamento.

Nessuno vuole tornare nelle grotte, e non ce ne sarà bisogno. La strategia può essere un misto di intelligenti tecnologie innovative, e di un ripensamento delle proprie abitudini, che abbandoni il paradigma delle comodità superflue e abbracci altre dimensioni. E prima si comincia e meno doloroso sarà il passaggio e più credibili le nostre prediche sulla sostenibilità a Cina e India, senza le quali non faremo strada. Al netto delle modellizzazioni più allarmanti ma inevitabilmente aleatorie e della pretesa serenità dei negazionisti, sono proprio i dati a far pensare che ci sia tempo e modo per ristabilire un equilibrio nuovo che sostituisca il modello ipertrofico di oggi, avviato quando eravamo tanti di meno e meno consapevoli.

Per farlo dobbiamo ripulire il dibattito dalle incrostazioni tardo-religiose. Queste, sia chiaro, non sono tutte uguali: molte nascono in malafede, sotto il segno di qualche potere, altre dall’accorata difesa di principi. Ma il rischio, volontario o meno, di oscurare alcuni temi le accomuna. La tenzone quasi teologica sul pericolo del riscaldamento globale non deve nascondere l’urgenza delle politiche per la terra o l’acqua. E le rivendicazioni a favore di questa o quella forma di energia non facciano ombra alla necessità di consumarne meno. E’ proprio nella bella ora in cui la disputa cresce d’intensità che dovremmo sgombrarla dalla infiltrazioni ideologiche.

14 Gennaio 2008 - Scrivi un commento
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