Discariche di rifiuti, le nuove isole degli oceani

Se da una parte i cambiamenti climatici e l’innalzamento della temperatura media a livello planetario causano la scomparsa di isole e atolli tropicali, dall’altra l’attuale modello economico favorisce la nascita e l’espansione di “nuove isole”. Enormi discariche galleggiano così negli oceani, la più famosa si trova al largo delle coste californiane e negli ultimi 10 anni ha raddoppiato la sua superficie raggiungendo un'estensione pari a quella degli Stati Uniti.

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di Laura Pavesi

Pacific trash vortex
Il “pacific trash vortex” (il Vortice di Rifiuti del Pacifico, t.d.a.) è formato da quasi 100 milioni di tonnellate di spazzatura
La “nuova isola” più grande e famosa del mondo si trova nel Pacifico settentrionale, al largo delle coste di California, Russia, Cina e Giappone ed è il “Pacific Trash Vortex” (il Vortice di Rifiuti del Pacifico, t.d.a.), formato da quasi 100 milioni di tonnellate di spazzatura, il 90% della quale è in plastica non biodegradabile. L'enorme massa galleggiante di rifiuti si sarebbe formata sin dagli anni ’50 a causa del movimento a spirale della corrente oceanica detta “North Pacific (Subtropical) Gyre”, che ha permesso ai rifiuti plastici di aggregarsi fra di loro e di formare una massa compatta e stabile.

Secondo Simon Boxall, oceanografo del National Oceanography Centre dell’Università di Southampton, la dimensione di questo ammasso negli ultimi 10 anni è raddoppiata e ha raggiunto un’estensione pari a quella degli U.S.A.

L’esistenza di una discarica fluttuante al largo delle coste californiane fu ipotizzata alla fine degli anni ‘80, ma la sua scoperta ufficiale avvenne solo nel 1997, quando il capitano Charles Moore - di ritorno dalle Hawaii - avvistò una grande quantità di detriti plastici al centro di un vortice e, insieme all’oceanografo Curtis Ebbesmeyer, la battezzò “Eastern Garbage Patch” (Massa di Rifiuti Orientale, t.d.a.). Ricerche successive portarono alla scoperta di un secondo ammasso di rifiuti ad ovest del primo e l’insieme delle due discariche venne rinominato “Pacific Trash Vortex” o “Great Pacific Garbage Patch” (la Grande Massa di Rifiuti del Pacifico, t.d.a.).

La preoccupazione maggiore degli studiosi che stanno monitorando il Pacific Trash Vortex riguarda i frammenti di plastica non biodegradabile. La plastica non biodegradabile che non viene sepolta nelle discariche finisce nei corsi d’acqua e nelle fognature, arrivando così nei fiumi e, infine, negli oceani. Si calcola che la quantità di plastica che arriva in mare aperto sia la metà di tutta quella presente sul pianeta. Una buona parte di essa, secondo gli studiosi fino al 70%, si deposita sul fondo degli oceani, mentre il restante 30% rimane a galla.

La plastica rimasta entro una profondità media di 20 metri dalla superficie viene trascinata all’interno delle correnti circolari presenti negli oceani e accumulata al centro dei vortici stessi, che sono zone relativamente stazionarie. Una volta all’interno delle spirali oceaniche, la plastica è spinta dal vento e dalle correnti superficiali verso il centro del vortice, dove si accumula costantemente.

correnti oceano pacific trash vortex
Si calcola che la quantità di plastica che arriva in mare aperto sia la metà di tutta quella presente sul pianeta
Anziché biodegradarsi, questi rifiuti plastici si "fotodegradano", disintegrandosi in pezzi sempre più piccoli, fino ad arrivare ai polimeri che li compongono. Queste particelle, che di per sé non sarebbero dannose, hanno la caratteristica di assorbire tossine e pesticidi. La fotodegradazione della plastica, inoltre, rende i polimeri molto simili allo zooplancton, favorendo il loro ingresso nella catena alimentare. In alcuni campioni di acqua marina prelevati dal “Pacific Trash Vortex” nel 2001 la quantità di polimeri superava di ben sei volte quella dello zooplancton.

Tutti gli oceani hanno correnti con andamento a spirale e, quindi, tutti accumulano isole di spazzatura. Anche se quella del Pacifico settentrionale è ad oggi la più grande, ci sono isole di rifiuti in forte espansione anche nel Pacifico meridionale, nell’Atlantico e nell’Oceano Indiano. Poiché la maggior parte della plastica che li compone è già frammentata in polimeri, spesso è impossibile fotografarle dagli aerei o dai satelliti, ed è molto difficile vederle ad occhio nudo fino a quando non si è al centro delle stesse. Numerose crociere scientifiche hanno riscontrato un’elevata concentrazione di frammenti plastici nell'oceano Atlantico settentrionale, in una zona corrispondente al Mar dei Sargassi. Mentre altre due importanti zone di accumulo di rifiuti sono state individuate nell'emisfero meridionale: la prima nell'oceano Pacifico, ad ovest delle coste del Cile, e la seconda (di forma ellittica) nell'Atlantico, tra l'Argentina e il Sud Africa.

Ma le minacce per l’ambiente e per la salute pubblica non vengono solo dalla catena alimentare: molti prodotti in commercio contengono estratti marini - ad esempio i cosmetici. Studi in corso stanno anche valutando se esista una connessione tra la proliferazione della plastica negli oceani e il progressivo aumento dei casi di cancro e di problemi di fertilità delle popolazioni delle coste. Inoltre, secondo le Nazioni Unite, si stima che i rifiuti plastici stiano uccidendo la vita marina nell’ordine di un milione di uccelli e 100.000 mammiferi all’anno, per avvelenamento e per soffocamento.

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Tutti gli oceani hanno correnti con andamento a spirale e, quindi, tutti accumulano isole di spazzatura
Attualmente non esistono soluzioni al problema. Simon Boxall è pessimista: “Persino una fuoriuscita di petrolio - ha dichiarato - per quanto possa essere disastrosa, alla lunga si disperde. Per la plastica non è così: queste isole sono qui per restare”. Recentemente negli U.S.A. si è parlato di ripulire gli oceani mediante l’uso di speciali autocisterne, nelle quali la plastica recuperata potrebbe essere bruciata e usata come combustibile. Ma quest’operazione comporterebbe non solo ingenti risorse, ma anche un’importante dispersione di emissioni inquinanti nell’atmosfera.

Per il momento, dunque, la possibile via d’uscita sembra essere una sola: smettere di produrre (ed acquistare) oggetti in plastica non biodegradabile e riutilizzare quelli già esistenti. Finché non ci sarà una decisa inversione di tendenza a livello planetario, questi “monumenti galleggianti” alla cultura dello spreco continueranno ad allargarsi. Tanto che alcuni studiosi stanno parlando già di “nuovi continenti di rifiuti” e non più di isole.

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14 Aprile 2010 - Scrivi un commento
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