E’ questo l’allarme lanciato da Legambiente con Mal’Aria industriale 2010, il libro bianco sull’inquinamento atmosferico da attività produttive che denuncia il trend degli inquinanti industriali in aumento. Cifre preoccupanti che non hanno destato lo stesso allarme dell’inquinamento causato dal traffico privato poiché, a parte qualche rara eccezione come il polo siderurgico di Taranto, la fonte industriale, non è ancora entrata nell’immaginario collettivo come un problema da affrontare.
Eppure l’industria contribuisce in modo molto sensibile alla Mal’Aria del Paese: con il 26% di PM10 emesso a livello nazionale, un livello di emissioni superiore a quello prodotto dal trasporto stradale (che incide sul totale solo per il 22%, ma che diventa la prima fonte di emissione nei centri urbani). Oltre alle polveri sottili, la fonte industriale scarica, poi, in atmosfera il 79% degli ossidi di zolfo (SOx) - ormai insignificanti nel settore dei trasporti grazie alle specifiche sempre più stringenti sulle concentrazioni di zolfo nei carburanti - e il 23% degli ossidi di azoto (NOx), precursore della produzione del PM10 secondario e dell’ozono, inquinante tipicamente estivo.
Passando dai macro ai microinquinanti, il contributo delle attività produttive denunciato da Mal’aria Industriale si conferma come davvero rilevante: ad eccezione del benzene (le emissioni industriali contribuiscono “solo” per il 15% rispetto al totale), degli IPA (34%) e del nichel (35%) infatti, l’industria italiana è la principale fonte di microinquinanti scaricati in atmosfera, con almeno il 60% del contributo totale come nel caso del cadmio, fino ad arrivare al 98% nel caso dell’arsenico.
Secondo le elaborazioni di Legambiente su 191 impianti industriali solo per 41 è stata rilasciata l’AIA (21%), mentre per 143 il procedimento non si è concluso e per 7 è in corso sia la VIA che l’AIA. Tra i 41 impianti che hanno ottenuto l’AIA (10 nuovi e 31 già esistenti), compaiono molte centrali termoelettriche (32) e pochi impianti “complessi” (4 impianti chimici e 3 raffinerie di petrolio). Nei 143 impianti ancora sprovvisti di AIA (pari al 75% del totale dei siti da autorizzare) ci sono 85 centrali termiche ma soprattutto 39 impianti chimici (il 90% di quelli in procedura di AIA) (tra questi alcuni impianti nel sito industriale di Priolo e il polo di Mantova), 17 raffinerie (l’85% del totale da autorizzare) - tra cui quelle di Gela, Milazzo, Priolo e Falconara - e le 2 grandi acciaierie dell’Ilva a Taranto e della Lucchini a Piombino (Li). Insomma un bilancio tutt’altro che rassicurante, sia nei numeri che nel dettaglio degli impianti, senza considerare che alle Autorizzazioni nazionali rilasciate dal Ministero si aggiungono quelle regionali e provinciali concesse dagli enti locali alle migliaia di impianti più piccoli.
Secondo Legambiente il ministero deve intervenire in modo concreto per rivedere i limiti di emissione delle diossine per tutti gli impianti industriali oggi non linea con quanto previsto con la normativa internazionale (Protocollo di Aarhus).
“I passi in avanti degli ultimi decenni per ridurre l’inquinamento industriale” - conclude Ciafani - “non sono stati sufficienti a salvaguardare la salute dei cittadini che vivono nei pressi di stabilimenti industriali. È per questo che Legambiente chiede al governo italiano di garantire adeguati finanziamenti per l’attivazione di studi epidemiologici per approfondire gli impatti sanitari derivanti dall’esposizione agli inquinanti emessi dalle lavorazioni industriali. Le Regioni italiane devono investire risorse economiche adeguate per quelle Agenzie regionali per la protezione ambientale che in due terzi del Paese non sono in grado di assolvere i compiti sui controlli che gli sono stati assegnati per legge. L’industria, infine, deve investire in ricerca, sviluppo e innovazione tecnologica, perché solo così potrà ridurre gli impatti ambientali delle sue lavorazioni e garantirsi quel valore aggiunto necessario per competere in un mercato globalizzato”.
15 Marzo 2010 - Scrivi un commento