Vita in campagna

Urbanesimo sostenibile

Nel corso della storia sono stati tanti i cambiamenti che hanno rivoluzionato il nostro modo di vivere gli spazi e le città. Un esempio tra tutti è la città di Londra dove, se in un primo momento erano riconoscibili spazi, reti, relazioni e flussi, con la rivoluzione industriale la città ha peso i suoi contorni relazionali e di sussistenza per poi acquisire oggi uno status di insostenibilità.

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di Nicola Savio

spazi città struttura
In un primo momento gli spazi all'interno delle città erano facilmente distinguibili

Io non so se qualcuno di voi è ancora seriamente convinto della sostenibilità del sistema agrario attuale, delle tecniche che impiega. Se sì, auguri.

Si sa, io sposo la tesi di Diamond sul fatto che l'agricoltura di per sé sia uno dei peggiori errori nella storia dell'umanità ma, anche rimanendo su posizioni meno “estreme” e legate ad una temporalità più “recente”, salta subito agli occhi come un sistema produttivo che consuma 10 per ottenere 1 (in termini di calorie) non può assolutamente essere considerato come un “buon affare”.

Se dovessi presentare un piano di fattibilità per un finanziamento su queste basi, probabilmente, mi riderebbero in faccia. Ma non è sempre stato così. Questo, detto fuori da nostalgie da raccoglitore-cacciatore. Partiamo da lontano.

Partiamo dallo studio portato avanti da Carolyn Steel (architetto-urbanista).

Per chi ha visto il video della conferenza tenuta per il TED (ok, è in inglese ma anche solo le slides sono abbastanza esemplari) risulta evidente come la prima vera città moderna del mondo, parlando in termini storicistici, si sia modificata in maniera stravolgente rispetto ai flussi dei prodotti agricoli, dei prodotti alimentari... del cibo.

Vediamo dapprima una Londra in cui sono riconoscibili spazi, reti, relazioni, flussi. Riconosciamo una struttura che non è solo fisica ma anche e soprattutto di energie e di interconnessioni. Consideriamo la struttura tipica dei “blocchi” urbani del periodo pre-rivoluzione industriale, facciamo un passo indietro fino alla città Gotica. L'edificio classico era composto da: abitazione al primo piano, bottega artigiana al piano terra e piccolo appezzamento di terreno adiacente.

Nella città gotica i grandi raccolti provenienti dall'esterno sono composti prevalentemente da foraggio, cereali o bestiame, il resto è, in buona parte, auto prodotto all'interno del perimetro urbano. Provate ad immaginare la quantità e la qualità degli scambi e delle relazioni tra le persone, diretta conseguenza di questa impostazione!(mi trattengo a stento dal citare Le Goff ed il Saint Monday). Strutture urbanistiche simili non erano riscontrabili solo nel nord Europa. Pensiamo a Prato, dove l'artigianato tessile subì una sorta di storia parallela a quella inglese, come si discuteva con Harloch, o a Venezia dove Michele mi faceva notare la struttura classica di una progettazione urbana caratterizzata dalla “militarizzazione”, dal commercio e conseguentemente dalla necessità di poter produrre anche sotto assedio.

In entrambi i casi, anche se per motivi diversi, ogni cellula abitativa era potenzialmente autonoma ma calata in una fitta rete di relazioni cosa che la rendeva ancora più efficiente (e sicuramente più stimolante).

Poi qualcosa cambiò. Arrivò la rivoluzione industriale. Senza voler essere dogmatici e senza farsi cogliere dallo spirito di Ned Ludd o di William Blake, non è che fu tutta una schifezza... noi “siamo” anche perché ci fu la rivoluzione industriale, sia che si viva in giacca e cravatta smanettando dietro titoli di borsa, sia che si sia deciso di abitare tra i boschi rifiutando la civiltà. Fa parte un po' di quei “latti versati” su cui discutere risulta spesso un ozioso.

cambiamento città struttura
Il primo cambiamento “drammatico” fu proprio sulla struttura stessa delle città
Il primo cambiamento “drammatico” fu proprio sulla struttura stessa delle città. Le fabbriche necessitavano di persone, il nuovo valore era il prodotto, le persone erano un mezzo. Gli appezzamenti di sussistenza vennero spazzati via per fare posto a nuovi edifici per la forza lavoro. Ma, soprattutto, il mercato si contrasse nelle mani di un numero sempre più piccolo di persone.

Il mercato di per sé, fino a questo momento non ha connotazioni particolarmente negative (anche se fino alla nascita del protestantesimo i mercanti vengono visti un po' come dei perversi...), è solo uno degli aspetti che le relazioni urbane, e non, possono assumere.

Dopo la rivoluzione industriale queste relazioni vengono progressivamente accentrate (con buona pace per le teorie liberiste). Parallelamente alle relazioni vengono progressivamente sottratte alle persone le responsabilità. Se fino a pochi anni prima l'artigiano era in grado di prodursi cibo, denaro, un tetto e delle relazioni soddisfacenti, l'operaio delega a terzi queste sue responsabilità.

Qui si rompe il meccanismo che fino a quel momento aveva dominato. Qui si formano, cosa a mio parere peggiore, definizioni rigide di professionalità elemento fondamentale per gestire le deleghe di responsabilità appena accentrate. Tra queste vengono per la prima volta definiti i ruoli dell'architetto e dell'agronomo che, fino a quel momento, erano unite sotto un'unica professionalità.

Agli architetti tocca costruire le case, agli agronomi i campi di grano. I primi in città i secondi in campagna. Op! Prima scissione. La città perde i suoi contorni relazionali e di sussistenza. Non per niente questo è anche il periodo in cui iniziano i primi seri problemi di gestione della produzione alimentare.

Justus von Liebig (noto ai più come produttore di figurine, di concentrato di brodo e demoniaco teorico dell'agricoltura chimica) proprio in questo periodo ci prova... Nel senso. Lui probabilmente non avrebbe voluto inventare l'agricoltura chimica... ma una soluzione si doveva trovare e, come spesso succede nella storia umana, quella perseguibile non risultò essere la migliore sul lungo periodo...

In ogni caso, il buon Justus, resosi conto dei cambiamenti in atto e del calo impressionante di resa dell'agricoltura, prese una carrozza e si diresse a Londra. Il suo obbiettivo era quello di convincere la municipalità di Londra a modificare il loro nuovo e bellissimo impianto fognario con scarico diretto nel bel mezzo della Manica creando un impianto di fitodepurazione che riportasse i nutrienti nei campi inglesi invece di disperderli nell'oceano (vi ricorda qualcosa?).

Il progetto era buono ed avrebbe funzionato, se fosse riuscito a convincere la, all'epoca, capitale mondiale dello sviluppo, le altre città europee avrebbero seguito a ruota. La municipalità di Londra apprezzò il progetto, lo ringraziò ma rifiutò cortesemente rispedendo Justus in Germania ad inventare l'agricoltura chimica... occasione persa! Una cosa simile successe negli anni '70 con il grano di Borlaug, altre toppa sul problema della produzione alimentare...

A questo punto abbiamo un problema. I cittadini non sono più in grado di sfamarsi. Hanno delegato questo compito ad una campagna a cui, d'altro canto vengono sottratti nutrienti. Contemporaneamente, gli urbanisti ed architetti sono presi da un sistema evolutivo legato alla produzione industriale e non più alimentare. La coltivazione urbana diventa nicchia di resilienza o, al meglio, hobby.

Oggi.

La rivoluzione industriale è un passato remoto. Il sistema si è evoluto verso forme sempre più complesse di mercato, la forza lavoro e le professionalità sono mutate verso il “terziario”. La responsabilità alimentare è definitivamente delegata a terzi, al succitato “mercato” ormai divenuto forma astratta in cui la merce, i prodotti, sono convertiti in numeri e cifre assurgendo allo stato di “utility”.

Qui siamo alla scissione definitiva tra agricoltura (sistema di produzione di “utility” commerciali) e sistema di produzione agro-alimentare (in ogni caso controllato dal mercato finanziario per delega implicita dei consumatori finali...). Gli agronomi progettano distese di mais, gli architetti il “merdolino” alessi (non è detto con cattiveria... e che siamo stati abituati a “guardare in basso”, architetti e agronomi compresi).

ciità oggi consumo risorse mondiali
Oggi pur ricoprendo solo il 15% della superficie terrestre, le città consumano il 75% delle risorse mondiali
In tutto questo l'uomo urbanizzato scivola quasi inconsapevole tra una delega e l'altra.

E' sufficiente dare un'occhiata alla piramide dei bisogni di Maslow per rendersi conto del “peak moment”!

In tutto questo processo le città hanno perso la loro struttura diventando strutturalmente amœbiformi, acquisendo definitivamente lo status di insostenibilità. Attualmente, pur ricoprendo solo il 15% della superficie terrestre, le città consumano il 75% delle risorse mondiali (alcune analisi sono anche peggio...). Ma non solo, il movimento delle persone dalla campagna alla città è in costante crescita. Solo per un certo periodo il moto si invertì ma senza conseguenze pratiche sulla riabilitazione di un sistema di produzione alimentare a responsabilità diretta... era la middle class urbana che cercava un prato all'inglese ed un garage per la macchina, scappando dal “volgo” che premeva alle “frontiere”.

Ma questo tipo di evoluzione non è legge. Non è l'unica scelta possibile. Esistono centinaia di pensatori “anarchici” (alcuni letteralmente altri solo perché fuori dal coro) che hanno ipotizzato o, in alcuni casi, realizzato compenetrazioni tra natura ed urbanità, spazi in grado di promuovere la diretta assunzione di responsabilità da parte degli “abitanti”. Ognuno meriterebbe un trattato a sé ma mi limiterò a citarne alcuni.

Disurbanisti Sovietici

Colin Ward

Kropotkin

Le Corbusier

François Hennebique

Eugene Hènard

La città di Utopia di Thomas Moore

Undertwasser

I minimal garden di Berlino

Le città lineari

La vera importanza, nel riprendere queste esperienze, sta proprio nel rapporto che andavano promuovendo. Non prevedevano “utenti” o “fruitori” ma persone responsabili in relazione tra loro.

Quando si parla di innovazione nel campo dell'agricoltura o della sostenibilità urbana si scivola spesso verso ipotesi altamente tecnologiche come le spettacolari

VerticalFarm. Soluzioni che, però, continuano a percorrere la linea di sviluppo seguita fino ad oggi: dare al consumatore finale un prodotto su cui lui non ha alcun controllo. Queste avveniristiche strutture (più simili alle arcologie di SimCity che alle fattorie) non riportano in nessun modo la responsabilità alla gente che abita in città. Possono essere potenzialmente ottime strutture per ciò che riguarda il risparmio energetico e la qualità della vita così come la conosciamo, ma non modificano di una virgola il nostro approccio ad una realtà che si è man mano allontanata.

Qui sta, a mio parere, la vera sfida per i futuri urbanisti. Non creare spazi che diano risposte. Non creare spazi che siano produttivi. Ma creare spazi che mettano le persone in grado di riappropriarsi delle proprie responsabilità. Spazi “scomodi” che permettano alle persone di procurarsi il cibo, avere relazioni, occuparsi dei propri rifiuti, avere cura di sé e di ciò che li circonda...

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15 Novembre 2009 - Scrivi un commento
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PERCHÉ QUESTA RUBRICA
La rubrica di Nicola Savio che ha scelto una via di "frugalità volontaria" trasferendosi ad abitare fuori città. Qui alterna lo studio e la sperimentazione di tecniche agrarie "naturali" e sostenibili alla realizzazione di una "Fattoria Urbana". Ospita i suoi pensieri, le sue scoperte e le sue esperienze in un percorso di ricerca, di confronto e scambio che possa arricchire chi legge e chi scrive. Una rubrica di "semi" sparsi a spaglio.
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