Le emissioni della pastasciutta

In Svezia prodotti alimentari e menù nei ristoranti non indicano solo calorie, ma anche emissioni di CO2. Da un anno anche in Francia un’etichetta indica la quantità di anidride carbonica emessa durante il ciclo di vita di un prodotto. Queste etichette cambieranno l’alimentazione di un popolo?

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di Elisabeth Zoja

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Quanto inquina un chilo di avena? 870 grammi di CO2. E’ questa la quantità di anidride carbonica che viene emessa durante il suo ciclo di vita
Quanto inquina un chilo di avena? 870 grammi di CO2. E’ questa la quantità di anidride carbonica che viene emessa durante il suo ciclo di vita, ovvero la produzione, l’imballaggio e il trasporto di una merce. Non solo i prodotti alimentari, ma anche i piatti sui menù recheranno d’ora in poi queste informazioni. Almeno in Svezia, dove alcune grandi aziende come Lantmannen, il maggior marchio agricolo svedese, e Max, la più grande catena di burger-restaurants, hanno iniziato ad etichettare prodotti e piatti, dal pollo alla pasta, fino all’orzo.

Non si tratta però di un’iniziativa completamente nuova: in Francia già da più di un anno alcuni prodotti alimentari della marca Casino portano l’indice carbon (indice carbonio), che misura le emissioni prodotte durante il loro ciclo di vita. Anche in Svezia viene usato questo principio ciclico denominato “farm to fork”: dalla fattoria alla forchetta. Quello che però manca nei calcoli svedesi è lo smaltimento dell’imballaggio, ovvero del sacchetto che contiene l’avena.

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Perché il governo svedese ha deciso di occuparsi della sostenibilità dell’alimentazione?
Perché il governo svedese ha deciso di occuparsi della sostenibilità dell’alimentazione? La risposta è semplice: il 25% delle emissioni prodotte nei paesi industrializzati provengono dal settore alimentare, quasi quanto quelle causate dai trasporti e dal fabbisogno energetico delle case. Le cosiddette “emissioni alimentari” potrebbero venir tagliate del 50%.

Da quando uno studio svedese, condotto dall’agenzia ambientale nazionale nel 2005, ha fatto queste rivelazioni, in Svezia si cerca di combinare “salute ambientale e personale”. Realizzare questo obiettivo è più facile di quel che sembra, poiché prescrizioni mediche ed ecologiche si contraddicono raramente. Una delle possibili incompatibilità sarebbe quella del pesce, che secondo i nutrizionisti dovrebbe venir mangiato da 2 a 3 volte a settimana. Le istruzioni svedesi però indicano pesci che non sono a rischio di estinzione e che possono quindi venir mangiate frequentemente.

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Max, la più grande catena di burger-restaurants, ha iniziato ad etichettare prodotti e piatti, dal pollo alla pasta, fino all’orzo
Inoltre medici e ambientalisti sono d’accordo sulla riduzione del consumo di carne rossa, sostituendola con pollo e legumi. Un hamburger di manzo infatti, causa l’emissione di quasi 2 chili di CO2, mentre uno di pollo non arriva nemmeno a mezzo chilo di emissioni.

Lo studio ha però fatto anche rivelazioni nuove, ad esempio, la produzione di riso inquina tre volte tanto quella dell’orzo e in ogni caso più di quella delle patate. Inoltre nei paesi freddi si dovrebbero privilegiare le carote ai cetrioli e ai pomodori poiché, crescendo sottoterra, le prime non necessitano del calore delle serre. I pomodori da serra non possono più venir definiti biologici ha dichiarato la KRAV, il principale programma di certificazione biologica scandinavo. L’impatto sul cambiamento climatico delle produzioni alimentari è dunque divenuto talmente rilevante che le agenzie che certificano la “biologicità” di un alimento la intendono anche per i suoi effetti sul pianeta. Cioè, perché un pomodoro possa venir definito biologico non deve solo essere sano, ma deve anche ‘inquinare’ poco.

Per carne e latticini invece la KRAV esige che almeno il 70% del nutrimento del bestiame sia locale. Gran parte della soia veniva infatti importata dal Brasile, causando emissioni legate ai trasporti e all’abbattimento di foreste amazzoniche necessario per la sua coltivazione. Non è dunque sufficiente che una merce sia stata prodotta localmente, anche i beni che rientrano nel processo di lavorazione devono essere di origine locale.

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La KRAV, il principale programma di certificazione biologica scandinavo, esige che almeno il 70% del nutrimento del bestiame sia locale
Il calcolo rischia di diventare troppo complicato? Alcuni temono di sì e ammoniscono che il sovraccarico di etichette farà sì che i consumatori le ignorino completamente.

Eppure alcune indagini rivelano che la maggior parte degli svedesi sono pronti a modificare la loro dieta a favore dell’ambiente. Infatti da quando è iniziata la segnalazione sui menu, la vendita dei piatti sostenibili è salita del 20%.

Così la coscienza alimentare svedese non si limita a grassi e calorie, ma tiene conto anche delle emissioni generate durante il ciclo di vita di un prodotto.

Le indicazioni dello studio svedese stanno circolando tra gli esperti di altri paesi dell’UE. Le etichette sulle emissioni potrebbero conquistare l’Italia?

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