Il tempo della decrescita

Limitato, scorretto, dannoso: il Pil è un parametro completamente inadatto a misurare il benessere di una società. Un gruppo di studiosi e attivisti propone una nuova strada per il ripensamento del pianeta e delle comunità: la decrescita. Breve introduzione a un movimento contemporaneo.

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di Stefano Zoja


Un vecchio mercato di paese
Cosa c’è di buono in un divorzio, nella rottura dello scaldabagno o in un incidente stradale? Tutti e tre innalzano il Prodotto Interno Lordo. Nell’ultimo caso, per esempio, ci guadagnano l’assicurazione, il carrozziere e magari anche il medico. Certo, meglio se toccano a qualcun altro, e meglio ancora se possiamo arricchirci, noi e il sistema, con mezzi diversi. Ma la crescita resta un paradigma indiscusso. L’economia ne ha bisogno, quindi noi ne abbiamo bisogno.

Dalle prime alle ultime pagine dei giornali non si rischia di trovare una voce dissonante: il benessere di una società avanzata dipende dalla sua capacità di produrre ricchezza. E’ un’idea rappresentata da conservatori e progressisti, fino alle forze di sinistra, praticamente a ogni latitudine. In giorni di campagna elettorale sentire parlare di crescita dell’Italia sembra ovvio, naturale, alimenta persino una timida speranza. Quel menagramo che si azzardasse a parlare di calo o di riduzione perderebbe anche il saluto.

E infatti non si arrischia quasi nessuno; anzi, è diventato un pensiero difficile anche solo da immaginare. Eppure qualche temerario che affronta il tema c’è. Un gruppo di economisti e sociologi, in particolare europei, che propongono un’idea nuova. Innanzitutto hanno deciso di chiamarla pudicamente “de-crescita”. E pressappoco la definiscono contrapponendo al denaro i valori umani. In parole povere, dove cresce il primo diminuiscono i secondi, e viceversa.

Torniamo al paradosso degli incidenti stradali. Se è vero che questi determinano un aumento della crescita, non si può però dire simmetricamente che la crescita aumenta gli incidenti stradali. Sarebbe metafisica, o ideologia. Quello che però si può sostenere è che in maniera indiretta il mito della crescita abbia alimentato, sì, il rischio di incidenti, allargato il buco nell’ozono, decimato le balene negli oceani, o sfilacciato le relazioni sociali.

Quand’anche fosse nato da un’ispirazione equanime o solidaristica, o fosse persino stato un parente dell’istinto umano allo sviluppo, il valore della crescita economica si è innanzitutto rattrappito, disperdendo sempre più ogni connotazione distributiva. Inoltre, per usare i termini di Serge Latouche, ha finito per colonizzare il nostro immaginario. Il valore della crescita e poi dell’accumulo hanno progressivamente scalzato gli altri nel nostro orizzonte di credenze e aspettative, fino a dominare incontrastati nel dibattito pubblico e a divenire riflesso condizionato degli individui. Da qui a riempire le strade di automobili e guidatori isterici, o a riempire di CO2 l’atmosfera il passo è breve.

E’ evidente il legame di questi temi con le rivendicazioni ambientaliste. E lo diventa ancora di più rispondendo a due domande: da dove viene e dove va il movimento della decrescita?


Una motorway inglese
Brevemente: nasce negli anni settanta con l’economista Georgescu-Roegen, che aveva applicato le leggi della fisica al processo di produzione economica, traendone una constatazione semplice e oggi sempre più condivisa: non si può sfruttare un pianeta con risorse finite per alimentare una crescita infinita. Un’argomentazione decisamente familiare all’ecologismo moderno.

Ma i continuatori del movimento si sono spinti oltre gli ambientalisti, rifiutando anche, come fa Latouche, l’ipotesi dello sviluppo sostenibile come un’impostura pericolosa. L’idea è che si tratti di un travestimento politicamente corretto del vecchio paradigma, e comunque di un orientamento insufficiente a ristabilire l’equilibrio sociale e del pianeta.

Cosa persegue allora il movimento della decrescita? La smitizzazione del Pil come misura del benessere, ma anche e soprattutto, come si era detto, il ripristino di alcuni valori in disuso. Rinnovare l’immaginario condiviso. Nelle parole di Latouche: “l’altruismo dovrebbe prendere il posto dell’egoismo, la cooperazione dovrebbe sostituirsi alla competizione sfrenata, il piacere del tempo libero all’ossessione del lavoro, l’importanza della vita sociale al consumo illimitato, il gusto di una bella opera all’efficienza produttivistica, il ragionevole al razionale, ecc”.

Ciò che a una lettura svogliata può parere sprovvedutezza o persino moralismo, dà il senso di quanto il paradigma della crescita sia oggi pervasivo e asfissiante. Ma decrescere non significa tornare nelle caverne e scordarsi che oggi, anzi, il nostro legame con il denaro e i suoi derivati è talmente stretto da rendere impensabile un salto immediato e radicale in un modello sociale diverso. Né si tratta di rinunciare a un lavoro o a delle entrate in cambio di niente. La proposta è un’inversione di tendenza nella nostra mentalità. La contropartita è un benessere inatteso lungo dimensioni che oggi ignoriamo. Il rischio, in caso di inerzia, è di un risveglio molto spiacevole.

Insomma, forse è la decrescita che ha da essere sostenibile: né brusca, né timida. Non si tratta di un’utopia: i luoghi dove esercitare questo stile esistono già, come è il caso dei Gruppi di Acquisto Solidali. E, come si capisce, è questa una visione che ha profondi legami e persino radici in comune con l’ambientalismo. Quando in tema di energie, per esempio, si sottolineano risparmio ed efficienza come linee guida, si è già dentro l’idea di decrescita.


Un vicolo di montagna
Così come quando si rinuncia alla macchina, e al costo della benzina o del carrozziere, in cambio di un’aria migliore, di uno sguardo diverso sulla città e sulle persone che passano, di uno spostamento che possiamo permetterci lento.

Perché dalle idee o dallo stile individuale si passi infine alla politica ci vorrà, perlomeno, del tempo. Da decenni la politica ha ceduto il passo: è l’economia che detta l’agenda, propagandando idee invecchiate quanto la Rivoluzione Industriale, ma assurte a verità. Eppure Santo Pil, guaritore di tutti i mali, è un’icona ingenua, che regge solo di fronte a sguardi distratti o interessati. Si sta aprendo lo spazio per nuove narrazioni. Basta volerle vedere. E poterle ascoltare.

28 Febbraio 2008 - Scrivi un commento
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